cronaca cinematografica
scusi, ha visto passare “una donna”?
La prima notte di quiete, di V.
Zurlini. Un professore di liceo con notevoli tendenze a confinarsi nella nebbia del mistero delle sue origini esistenziali e sociali, sceglie per luogo di supplenza una Rimini non meno nebbiosa. Si atteggia a sradicato, e forse per farcelo capire legge il Newsweek e il Figaro, evitando accuratamente di immischiarsi nell’«anonima» o per lui «inesistente» cronaca italiana. Disimpegnato sia per attitudine che per letteratura, conclude romanticamente la sua esistenza terrena in una provincia che chissà perché è sempre immaginata come il terreno più adatto a certi acritici e imprecisati termini di riferimento storico e individuale. È qui che tenta di attuare l’ultima scelta tra una donna senza tempo che condivide la sua vita e un’altra ragazza anch’essa senza tempo.
La credibilità di questo personaggio sta proprio nella sua incredibilità. Ma questo di dar credito a un repertorio incredibile di vacua fauna maschile accade tutti i giorni e ci siamo, ahimè, abituate.
Non descritte, del tutto inverosimili, e purtroppo ormai prevedibili, appaiono le donne in questo film, come del resto conferma un più vasto colpo d’occhio sul cinema contemporaneo, dove il personaggio femminile viene presentato come accessorio sessuale.
Nello scarno panorama dei film d’amore — o di problemi d’amore — rientra anche La prima notte di quiete e ad imboccare questa sempre più difficile strada della cultura italiana incapace di parlare d’amore — o di problemi d’amore — si corre il rischio di perdersi.
E quello che accade. Il fatto è che questo cinema italiano, oggi, ci parla continuamente di personaggi maschili: motivabili e autentici anche se negativi, riscattati sempre e resi credibili da un’indagine psicologica o sociologica, dall’autocritica o dall’umorismo, assolti dalla loro problematicità.
L’uomo degno di analisi, di approfondimento, di considerazione, è sempre preferibile a tutti i livelli, ci racconta la settima arte. E non solo questa purtroppo.
E la donna?
Chi sono e cosa rappresentano o vogliono dire queste donne relegate puntualmente in ruoli erotici ma informi, senza riferimenti reali, pure immagini astratte simili a Carosellli, dove volutamente si esige che nessun nesso esista tra il contenuto visivo e la colonna sonora. Maschere, appunto, tolte dalla pubblicità che ci sommerge. Donne che ci sembrano di una rara tragicità, proprio perché mai spiegate a livello umano. Calate contro ogni speranza di rivalutazione in manichini monchi e senza verbo.
«Scusi», osiamo chiedere alla società dei consumi, «ha visto passare una donna da queste parti?»
«No, guardi, di qui è passata solo l’Amelia, la zia di Carlo, la mamma». Elementi femminili, non c’è dubbio, deformati dalle convenzioni e dalle istituzioni. Ruoli, dunque, da mantenere e da difendere: fatiche di mogli-madri retribuite attraverso la promozione nella società del maschio. Per la donna in sé, come essere umano, da queste parti non c’è posto.
Indeterminata, privata di identità e dentro i ruoli, esclusa da un discorso collettivo e sociale, è anche la donna di Zurlini. Allora sarà bene capire attraverso i film, ma anche attraversò la vita quotidiana, come alla donna la società non riserva che due scelte e tutte e due di repertorio, come dire imposte. Essere l’oggetto come l’Amelia e la zia di Carlo, in tal caso Monica nel film, interpretata dalla cara Lea Massari, oppure l’elemento, cioè l’ossigeno, l’azione e anche la mamma — non tocchiamo le mamme, per carità.
Ma come l’oggetto è utile strumento nel tempo che serve all’uso, l’elemento è ineluttabile come la pioggia e le istituzioni, una fatalità che rivela più l’accettazione che la scelta. Uso e consumo, dunque e dopo il buio.
E così che vedono le donne questi uomini della via nazionale al socialismo?
Zurlini continua a illuminarci su questi disperati anni ’70, amando i profondi bàratri di morte e di dolore che coabitano le donne. «Sto con te, «dice infatti, «perché non sopporto la tua tristezza così profonda …» La logica è in ferie.
La «sua» donna comunque non lo priva di preoccupazioni egualmente emozionanti dichiarando di tanto in tanto la sua poco tenace volontà di sopravvivere.
Una continua e provocata morte di rapporti le dà ragione. Questa osservazione , d’altronde, non coinvolge solo il film in questione e si innesta benissimo anche in un più ampio contesto sociale.
Rabbiosi e ottusi ci pervengono intanto attraverso le immagini, i suoi amplessi: aggressivi per pulsione erotica e infine solo biologici. A questa vera e propria dragatura sessuale troviamo le due donne non solo consenzienti, ma approvanti e soddisfatte. Si sa, le donne non sono nate che per questo! Assolutamente ignorata la psicologia femminile, nel senso dell’essere umano. Citiamo a caso una frase della giovane imberbe interprete di panno lenci: «Non sai niente di me » bisbiglia in una patetica quanto azzardata e inutile ricerca di un rapporto umano la tristissima Vanina.
«So quanto mi interessa sapere » è la laconica risposta . E siccome ne sa quanto noi, non sa nulla, né tantomeno gli interessa. Che miri al sodo …? Di lei ci racconta schedariamente la donna equivoca garantita dal pliche: «Passato molto — presente poco — futuro nulla». Che vorrà dire? Non si vorrà mica sostenere che la provincia permette simili conclusive definizioni? Diciannovenne, nata dunque nel 1953, entra ora nelle nostre esperienze dispersive dei governi che si governano a vicenda e senza epilogo. La scelta sarà, alla fine dell’anno scolastico, «andare all’estero» … Quale Italia sfugge la futura emigrante? Non fatevi inutili domande.
E la generazione che ha oggi vent’anni, come ha reagito o reagirà a questa agghiacciante sentenza senza appello che la proietta senza futuro nel domani? Anche su quel poco presente involtato nella nebbiosa e non descritta provincia riminese, c’è molto da discutere proprio perché questa foschia involge ben altre zone.