inchiesta
aborto anno primo
Indagine negli ospedali italiani ad un anno dall’andata in vigore della legge 194: quello di cui nessuno parla, è il “riflusso”…
«Pronto, San Giacomooo…», «senta mi dice per favore quando ci sono le prenotazioni per le interruzioni di gravidanza…», «venga mercoledì», «sì, ma a che ora – rispondo», «come sempre all’alba o la sera prima?», «le conviene». Il centralinista riattacca. Il San Giacomo è uno di quegli ospedali di Roma dove l’applicazione della legge è avvenuta, pur fra tanti ostacoli, sin dall’inizio di questo primo travagliato anno di “rodaggio”; ma a distanza di dodici mesi che succede? Se fossimo andate a prenotarci, trascorrendo la notte nei corridoi dell’ospedale, avremmo trovato una sorpresa: non più le file di quaranta donne dei primi mesi, ma quattro o cinque. Perché? L’abbiamo chiesto a Graziana Del Pierre, del Coordinamento nazionale per l’applicazione della legge 194, medico anestesista al San Giacomo. L’abbiamo incontrata nella sede romana del Coordinamento, quasi alle ultime battute del nostro faticoso viaggio all’interno delle strutture sanitarie italiane. «Riflusso. Siamo in una situazione di riflusso. Le donne che chiedono l’aborto alle strutture sanitarie pubbliche sono diminuite e di molto». Che vuol dire, chiedo, clandestinità? «Sì. Le donne hanno avuto ed hanno tutt’oggi molto coraggio a venire a chiedere l’aborto in ospedale, ma oggi hanno anche imparato che in un ospedale si praticano un certo numero di aborti, e loro dovranno aspettare anche venti giorni prima di farlo, e allora accade come al San Giacomo, dove invece di venirsi a prenotare in cinquanta ne arrivano quattro: sembra quasi che. si siano messe d’accordo, che quelle quattro sappiano che a loro andrà bene subito». «Così — continua Graziana — se a Roma si fanno 30 aborti al giorno negli ospedali, si può presumere che siano al massimo il 40% per cento degli aborti reali. E la situazione” del Lazio appare probabilmente buona, ma tutto è relativo al fatto che la “domanda” ad un anno dalla legge non c’è». Sappiamo, sono dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità, che in Italia ad ogni nato corrispondono due aborti. «Allora — dice Graziana — rispetto alle cifre di natalità o sono nati quest’anno 700 mila bambini in più (e non è vero) o le donne sono andate ad abortire clandestinamente, visto che i dati del Ministero della Sanità dicono che fino a dicembre ’78 gli aborti effettuati in Italia sono stati 46.000». La situazione paradossalmente sembra ritornare ad essere quella di prima della legge. «Le donne devono avere ancora più coraggio, dire alle loro amiche e a tutte quelle che si trovano di fronte al problema dell’aborto, di premere, di andare negli ospedali a chiedere quello che è un loro diritto, ci dobbiamo mobilitare tutte in questo senso». Apparentemente la legge funziona: a tanta domanda c’è altrettanta risposta: e siamo a Roma, nel Lazio, una delle situazioni più “privilegiate” sotto certi aspetti. Ma bisogna tener conto anche del fatto che Roma riceve anche la domanda di regioni come la Campania e l’Abruzzo: «Se la gente dice che la legge funziona è solo perché alla fine le donne, dopo le estenuanti attese (fin oltre un mese, in alcuni ospedali) hanno rinunciato e sono andate ad abortire altrove». E sono anche morte, replico io. «Già, risponde Graziana, a Milano e a San Miniato». A Milano una donna di ventisei anni è morta dopo tre giorni dì agonia dopo aver bevuto una soluzione datale da una mammana a base di acqua saponata e di lisoformio. Ma del resto abortire a Milano è difficile quanto a Roma, Anche qui è scattata la trappola dell’obiezione: il 77% degli obiettori in città, il 68% nella provincia, come testimoniato dall’assemblea alla clinica Mangiagalli di Milano tenutasi ai primi di maggio, presenti molte donne e pochi medici. La percentuale di obiezioni (il 72% in totale su tutto il terreno nazionale) che è stata denunciata al primo convegno del Coordinamento nazionale per l’applicazione della legge 194, tenutosi a marzo a Roma, del resto è verificabile leggendo le cifre, raccolte’ dal coordinamento stesso e quelle nostre con la collaborazione di tutte le situazioni di lotta delle donne e degli operatori sanitari non obiettori. I dati non sono completi («stiamo ancora aspettando quelli del Ministero della Sanità!» ) ma possono testimoniare delle difficoltà delle donne e degli stessi operatori sanitari non obiettori all’interno di una struttura sanitaria fatiscente come quella italiana. «Il dato sul quale mi sembra ci sia da dire ancora, afferma Graziana del Pierre, è che nonostante tutto, questa legge può funzionare e questo “nonostante tutto” lo riferisco alle nostre strutture sanitarie». La 194 infatti “nonostante” la mancanza di posti letto, i problemi del personale, l’arretratezza di tutto il sistema sanitario, ha dimostrato che è una legge abbastanza “aperta” da essere applicabile. Il problema più grosso, l’abbiamo detto, è l’obiezione». «Pensiamo, dice ancora Graziana, alla situazione romana, dove si è ottenuta la presenza di un famigliare durante l’interruzione di gravidanza, e la presenza del padre in sala parto». Le chiediamo ancora una “lettura” dei dati di Roma e del Lazio. «A Roma, come le ho, già detto, tutto apparentemente funziona, nel senso che gli aborti si fanno. L’ospedale San Giovanni funziona grazie alle convenzioni esterne, il San Giacomo funziona e lo sai, al San Camillo abbiamo la situazione ottimale, le lotte delle donne hanno infatti portato all’istituzione del day-hospital, quindi praticamente si fanno interventi tutti i giorni. Degli, ospedali vicino a Roma, la maggior parte funziona, ma c’è un particolare: spesso i primari, obiettori, sono quelli che “lavorano” facendo del terrorismo psicologico che allontana le donne dalle strutture pubbliche. Anche l’AIED funziona per l’applicazione della legge (ha anche promosso di recente un centro a Roma in Viale Gorizia di consulenza per le donne che devono abortire) ed ha fatto molte convenzioni che hanno permesso ai medici di andare ad operare in ospedali dove l’obiezione era massiccia».
Ma i dati del Lazio sono insufficienti a giustificare il funzionamento della legge: pensiamo soltanto ai dati parziali degli aborti effettuati prima dell’andata in vigore della legge da parte del CISA, del CRAC, a tutti i viaggi a Londra organizzati da Roma, e vediamo che la stragrande maggioranza delle donne oggi abortisce in clandestinità, magari con gli stessi medici che in ospedale hanno obiettato, che però in “privato” chiedono mezzo milione. E costoro noi non li denunciamo. «No. Non possiamo — dice Graziana — perché siamo ancora una volta prigioniere: andiamo a finire da loro o perché non sappiamo come funziona la legge, oppure andiamo all’ospedale, dove non tutte possono essere accolte, quindi non resta che ritornare da loro un’altra volta. “Loro” ci servono. E se non riusciamo a rimettere in piedi la lotta per l’aborto, se non otteniamo i poliambulatori dove l’aborto potrà essere fatto come nei day-hospital, senza ricoveri, finirà che lentamente nessuna di noi ricorrerà più alle strutture pubbliche. In questo viaggio “attraverso l’aborto”, del resto incontriamo situazioni di lotta che seppure vincenti rischiano di retrocedere pesantemente. Nel Molise il movimento delle donne è riuscito ad ottenere una delibera che istituisce un servizio finalizzato all’applicazione della legge con struttura ambulatoriale (vedi Effe, maggio 1979), ma la delibera rischia di essere messa in discussione e respinta perché “illegale”. In questa regione non esistono consultori e al coordinamento locale dicono che «il governo regionale democristiano è proteso a conservare l’immagine di una regione “moralmente sana in cui le donne, oneste lavoratrici, non abortiscono”». A Napoli, il dottor Karman si è offerto di dare dimostrazione del suo metodo per aspirazione all’ospedale Cardarelli, ma è stato respinto, mentre a Torre Annunziata sei anestesisti su sei sono obiettori e questo “giustifica” la. mancata applicazione della legge. In Sicilia, nella clinica universitaria Vittorio Emanuele di Catania, sono stati eseguiti nel 1978, 800 aborti dai due medici non obiettori, però una specie di lunario degli obiettori si “preoccupa” di diffondere la contraccezione. Qui l’apparecchiatura per l’aspirazione è arrivata da qualche mese, ma non viene usata perché “non giudicata idonea” e del resto, commentano le compagne, le donne devono aspettare tanto per ottenere l’aborto (più di un mese) che probabilmente per la maggior parte di loro non servirebbe probabilmente più dato l’avanzamento della gravidanza.
Sempre a proposito dell’aspirazione, al Santo Bambino, l’attrezzatura c’è, ma è rotta da mesi. Un dato “esemplificativo” della situazione della provincia siciliana: a Biancavilla nel 1978 sono stati praticati 70 interventi ma è stato sufficiente un cambiamento nell’amministrazione perché la legge non venisse più applicata. In Basilicata la maggior parte degli interventi è stata effettuata in una casa di Cura (Caure), 134 in tutto fino a dicembre. In Puglia le strutture disponibili sono il 50 per cento, i medici obiettori sono il 75 per cento. Al di sotto dei diciotto anni sono stati fatti complessivamente 104 interventi. Questo dato ci riporta al problema minorenni: solo 3 per cento degli interventi effettuati in Italia si riferisce a ragazze al di sotto dei diciotto anni. Per loro la clandestinità è quasi assoluta: del resto, ci ha detto Graziana Del Pierre, non possiamo pensare che le minorenni non rimangano incinte, visti i problemi e la disinformazione che abbiamo in generale sulla contraccezione Per loro si prospetta, se tutto va bene, un giudice tutelare che le possa capire, come accade a Roma, dove finora tutte le richieste di autorizzazione sono state accolte, altrimenti, nel caso in cui non possano dirlo ai genitori (la maggior parte probabilmente) o quando essi non acconsentano a firmare l’autorizzazione (non è sufficiente neppure la sola autorizzazione della madre, ci vuole infatti il consenso di entrambi i genitori anche se separati o divorziati), e il giudice tutelare non dà il consenso, la clandestinità è assicurata.
Silvia Costantini
inchieste
e se obietta anche il giudice tutelare ?
E’ emerso che solo il 20 per cento circa delle interruzioni di gravidanza è stato praticato nelle strutture pubbliche, e quindi seguendo l’iter previsto dalla legge.
Fra tante donne che non hanno utilizzato le strutture sanitarie pubbliche a causa delle loro macroscopiche carenze, per le lungaggini burocratiche, per i mille ostacoli determinati dalla massiccia obiezione dei medici e paramedici, sicuramente un discorso a parte meritano le minorenni. Infatti la legge 194 prevede per la interruzione della gravidanza della donna di età inferiore ai diciotto anni l’assenso di chi esercita la patria potestà o la tutela sulla donna. La minorenne che non voglia o non possa in considerazione delle prevedibili reazioni e conseguenze familiari coinvolgere i propri genitori o i cui genitori si oppongano o esprimano pareli difformi sulla interruzione della gravidanza, ha davanti a sé tre alternative: 1) recuperare in termini comprensibilmente brevissimi, un medico disposto a fare una certificazione da cui risulti l’urgenza dell’intervento a causa di un grave pericolo per la salute della minore; 2) rivolgersi ad un medico perché trasmetta una relazione con il proprio parere al giudice tutelare, il quale potrà autorizzarla (o meno) ad interrompere la gravidanza; 3) abortire clandestinamente. Una breve indagine da me condotta sulla realtà napoletana — ma sarebbe indispensabile una verifica più puntuale — dimostra chiaramente che il duplice controllo medico-giudice posto in essere dalla legge, fa sì che ricorrano all’aborto clandestino la stragrande maggioranza delle minorenni, cioè proprio quelle di noi che a causa di condizionamenti familiari, scarsa autonoma economica, emarginazione, avrebbero più bisogno di una valida struttura socio-sanitaria di sostegno.
Ma anche se restano ancora poche le donne che si sono rivolte al giudice tutelare e diversi i provvedimenti negativi, già si segnalano da parte della magistratura tentativi di “sabotare” ulteriormente la legge, riconoscendo al giudice tutelare la possibilità di astenersi laddove, a causa delle sue convinzioni, sia contrario al principio di interruzione della gravidanza e quindi non si senta imparziale nella decisione. Se questo orientamento si diffondesse vedremmo, quindi, accanto ai tanti medici anche la categoria dei “giudici obiettori”!
Ma occorre chiarire che l’obiezione di coscienza non è riconosciuta dalla legge 194 ai giudici, né potrebbe, in quanto essi hanno l’obbligo costituzionale di applicare la legge, indipendentemente dal giudizio di valore che personalmente attribuiscano alla legge stessa.
Inoltre va chiarito che, così come è stato già interpretato dall’Ufficio del giudice tutelare di Milano, il giudice ha la sola funzione di supplire alla mancanza di consenso da parte di chi esercita la patria potestà, pertanto il principale oggetto della sua indagine deve essere l’accertamento della conformità fra la situazione in cui si trova la minorenne incinta e le condizioni alla cui presenza la legge (art. 4) consente alla donna maggiorenne di interrompere la gravidanza. L’articolo 12 prescrive infatti al giudice tutelare di tenere conto della volontà della donna e delle ragioni da lei addotte e parla di “autorizzazione a decidere” l’interruzione della gravidanza.
E’, infine, sicuramente escluso un controllo tecnico-giuridico da parte del giudice della valutazione favorevole espressa dal medico. La nostra lotta contro la disapplicazione strisciante, della legge, oggi più che mai in atto, deve quindi tenere conto e sviluppare anche queste riflessioni, se, vogliamo provvedere con specifici strumenti organizzativi a risolvere in qualche modo il problema dell’aborto delle minorenni. Occorre, ad esempio, che i consultori di cui disponiamo forniscano anche un’assistenza tecnica che aiuti le donne a rivolgersi senza timore al giudice tutelare e d’altro canto, tenuto conto che oggi molti giudici tutelari sono donne, bisogna coinvolgerle tutte in un primo momento di incontro e di dibattito che dia nuove e migliori prospettive all’applicazione della legge.
Graziella De Ianni
torino: cosa rimane delle lotte delle donne?
Il S. Anna è l’ospedale ginecologico di Torino (affiancato dalla clinica universitaria): vi affluiscono dalla regione tutti i casi più gravi. E’ tra gli ospedali italiani uno di quelli in cui la mortalità perinatale è più alta: sia la gravità dei casi che vi si presentano, sia la tipologia (Torino è stata una città di forte immigrazione), possono spiegare questo fatto; ma in qualche modo questa circostanza testimonia dell’inefficienza della struttura. Al S. Anna gli aborti si sono sempre fatti, anche prima della legge, ma con il contagocce.
Il gruppo di donne che hanno progettato e realizzato l’occupazione era formato sostanzialmente da delegate dell’Intercategoriale (una struttura sindacale di sole donne) e da alcune compagne che avevano preparato e seguito un corso delle 150 ore sulla salute della donna (corso che aveva raccolto a Torino circa 3.000 donne, operaie, impiegate e studentesse). L’occupazione venne attuata all’epoca delle lotte negli ospedali, e sull’onda di tale vasta mobilitazione, il sindacato decise di appoggiare l’iniziativa. Il padiglione nuovo ed ancora inutilizzato che era stato scelto come “luogo fisico” da cui muoversi, fu per una settimana una “casa della donna” del movimento torinese. Tutte le compagne vi “pernottavano”: poche hanno partecipato alla lotta vera e propria. Vorremmo sottolineare la disparità fra le energie impiegate, le pene sofferte, i dibattiti di cui le donne sono state protagoniste, ed i risultati ottenuti. Nel documento inviato agli assessori comunali e regionali alla sanità — Molineri ed Enrietti — le donne (con l’appoggio dei sindacati ospedalieri e dell’Intercategoriale donne), avevano avanzato queste richieste:
1) che i consultori fornissero alle donne l’informazione sulle tecniche abortive e sugli anticoncezionali (compito per altro previsto dalla legge all’art. 14 ed oggi completamente trascurato);
2) che gli ospedali della regione venissero messi in grado di eseguire tutte le interruzioni volontarie di gravidanza (IVG) richieste nel loro bacino di utenza;
3) che venisse realizzato al S. Anna il day hospital, in grado di fornire l’assistenza per le IVG e per i piccoli interventi;
4) che le strutture sanitarie potessero garantire l’intervento in fase iniziale di gravidanza, permettendo così alla donna la scelta fra anestesia locale e totale.
Le richieste “tecniche” erano state precedute da un lungo e lacerante dibattito, da cui emergeva con chiarezza la divaricazione sempre esistente tra la pratica che può essere costruita — seppur faticosamente — tra le donne fuori dall’istituzione o senza di essa, e la possibilità di introdurre questa pratica nell’istituzione.
In concreto che cosa è rimasto nelle strutture sanitarie della battaglia delle donne? L’apertura del “day hospital” e l’immediata entrata in funzione del reparto nuovo che era stato occupato. Il collegamento tra consultori e ospedali, invece, non ha mai funzionato. Come la vicenda dei consultori, quella del S. Anna ha testimoniato la nostra incapacità di influire sulle istituzioni, se non facendoci noi stesse istituzione. Ciò significherebbe, rispetto all’aborto, riprendere la pratica illegale che prima dell’introduzione della legge era già stata sperimentata.
Il dibattito nel movimento è fermo: forse perché non abbiamo nulla da proporre? La scoperta che Un dentista praticava aborti clandestini ha offerto nuova materia di riflessione. In febbraio due compagne, Elena e Daria, provocano l’arresto del dentista che, grazie alla complicità di un’ostetrica operante all’interno della struttura pubblica (Consultorio Comunale) compiva aborti clandestini su donne per lo più “dirottate”, appunto, dalla struttura pubblica a quella privata. La denuncia penale finisce sul tavolo di un magistrato della Procura della Repubblica di Torino, che comincia l’istruttoria che, molto probabilmente, si concluderà con un provvedimento di rinvio a giudizio, dando così luogo ad un procedimento penale per aborto compiuto al di fuori delle modalità previste dalla legge del giugno ’78. Ora, è proprio davanti all’eventualità di questo processo, in cui potremmo costituirci parte civile e quindi giocare un ruolo attivo, che le donne hanno cominciato a porsi tutta una serie di interrogativi.
In primo luogo, ci si è ovviamente poste la questione della opportunità e, quindi, della validità di un’azione di questo genere: ha senso — ci si è chieste — denunciare e mandare sotto processo un abortista clandestino, quando si sa benissimo che di questi abortisti clandestini noi continuiamo ad avere bisogno e “non” solo come minorenni? E poi — questo anche ci si è domandate — perché “questo” e non un altro? Con quali criteri scegliamo i nostri bersagli? Ed è giusto scatenare una vera e propria guerra di delazioni, nella quale potranno domani trovarsi coinvolte le stesse donne? Di fronte a queste domande, una parte di noi ha decisamente respinto questa pratica, che finisce per colpire proprio quelle donne che si vorrebbe tutelare e in nome delle quali si vorrebbe agire.
Un’altra parte di noi ha invece finito per ritrovarsi favorevole a questa denuncia, non tanto come momento di criminalizzazione del singolo individuo, o come un appellarsi più o meno astratto alla giustizia delle istituzioni, quanto come momento di stigmatizzazione e di messa a fuoco, di fronte all’opinione pubblica, dell’inadeguatezza, delle carenze e delle ambiguità della legge sull’aborto, evidenziando anche l’insufficienza e la cattiva gestione delle strutture sanitarie. Certo, benché convinte della validità di queste motivazioni, restiamo perplesse al pensiero di portare davanti a un tribunale dello Stato un abortista; forse sarebbe più interessante e costruttivo vedere nella veste di imputato uno dei tanti pseudo-obiettori di coscienza, riportando alla ribalta il discorso della pubblicizzazione delle obiezioni di coscienza, e della possibilità del controllo su di esse. Ad ogni modo, anche di fronte a questi motivi di perplessità, di cui, sia chiaro, non vogliamo nascondere la , gravità, una parte di noi resta dell’idea che in qualche modo il cerchio vada spezzato: perché, se è vero che le donne hanno bisogno degli abortisti clandestini, è anche vero che questo bisogno nasce proprio dalle carenze della legge e delle strutture pubbliche cui essa fa riferimento; ora, a noi pare che continuando a cedere a questo ricatto si finisca per fare il gioco delle istituzioni, colmando, con la nostra pelle, i loro vuoti.
Daniela Gobetti, Carlotta Graffigna, Giulia Tappi
da milano a brescia per non trovare un letto
Palazzolo all’Oglio, un paese come tanti, nella provincia di Brescia. Ci arrivo in macchina da Milano, mercoledì 3 aprile; sono le otto meno un quarto quando varco la soglia dell’ospedale. Dalla maternità partono ordini di accettare tutte.
Nella saletta d’attesa del reparto ci troviamo poco dopo in una ventina di donne. La maggior parte sono di Milano, altre di Brescia, Treviglio, etc. Donne di condizione e di età diversa, differenze che si annullano nel dramma comune: donne decise a non portare avanti una gravidanza indesiderata. Tutte snervate dai giorni di attesa spesi, con autorizzazione alla mano, nella affannosa ricerca di un ospedale. Ovunque interminabili liste di attesa… Ognuna con una scadenza ben precisa, inderogabile. Cominciano ad assegnare i letti che durante la mattinata si sono resi liberi. Io ed una donna con tre figli semi-incustoditi a casa, restiamo senza letto.