anche se lebbroso lo devi adorare
Note di un viaggio attraverso l’India
La prima cosa che mi capita di leggere a Delhi, su The Times of India, è un articolo in prima pagina dove si dice che il Movimento di Liberazione Femminile non avrebbe ragione di essere in India dove le donne sono ormai totalmente emancipate. Prova ne sia, aggiunge l’articolista, che il primo Ministro, Indirà Gandhi, è una donna, e che siedono in parlamento 59 donne, un numero superiore, ad esempio, alle donne-deputato negli Stati Uniti.
In India vi sono in realtà molte donne che occupano posti importanti. Ma sarebbe mistificatorio dedurne che la donna indiana è emancipata. Tranne che negli strati più alti della società il modo di vita delle donne non è cambiato da quando, nel 56, hanno avuto parità di diritti. Meno del 10 per cento delle donne indiane sa leggere e scrivere.
Parlo con un indiano che appartiene all’alta-borghesia. Da queste famiglie escono gli alti funzionari statali, i «creatori» della opinione pubblica e tutte le donne-deputato o donne-ministro. L’aver dato formalmente uguali diritti alle donne, che sono ben lontane dall’essere concretamente uguali agli uomini sul piano sociale o dell’educazione, ha avuto come conseguenza che un esiguo numero di donne colte per estrazione sociale ha facilmente raggiunto posti di primo piano.
In Parlamento, dove si trovano anche deputati che appartengono al ceto medio (cosa che si nota visibilmente dal diverso tipo di abiti che portano), le donne-deputato sono tutte vestite allo stesso modo, sari di chiffon blu o verde scuri con ricami d’argento. Fra queste signore, che luccicano come satelliti in una notte senza luna, e la maggioranza delle donne indiane, esiste la grande notte dei secoli. In fondo, dice il mio interlocutore, per quanto anglicizzato e non religioso, un indiano ammirerà sempre in cuor suo una «suttee» (le vedove che una volta erano costrette a bruciare vive sul rogo dove veniva arso il cadavere del marito) anche se ritiene che questo costume vada abolito.
E sì che alle origini la donna indiana non era né sottomessa né servile. Sculture antiche ci mostrano una donna nuda dalla vita in su, plurimaritata, che partecipa alla pari a rituali, a dibattiti, ed è parte attiva di incontri sessuali privi delle inibizioni che ancora oggi coinvolgono le nostre avanzate morali codificate.
In seguito, la poliandria fu vietata, e la donna fu gradualmente ridotta a mera riproduttrice della specie, privata della proprietà personale, maritata fra gli otto e i dieci anni, di poco riabilitata se produceva maschi invece di femmine, costretta a onorare il marito come un Dio. Manu, un legislatore indù, scrisse: «lebbroso, ubriacone, sadico, comunque egli sia, il marito è da adorare, coprire di fiori e di onore». Di qui all’immolazione delle vedove il passo è breve. Quando sfuggivano al rogo, le vedove venivano rinchiuse nei bordelli vicini ai templi. Molta gente considera ancora oggi la vista di una vedova cattivo presagio, e in indostano c’è una unica parola per dire vedova e prostituta.
L’influenza musulmana (oggi vi sono in India cinquanta milioni di musulmani, pari al 10 per cento della popolazione) ha aggravato la situazione. La donna musulmana esce velata, ha case con vetri opachi, non riceve alcuna educazione. Ho assistito a Ranipet, nello Stato del Tamil Nadu, a un matrimonio musulmano. Lo sposo tutto vestito di bianco su un palco ascoltava i versi del Corano («la donna è il tuo campo, arala tutte le volte che vorrai») e accoglieva gli ospiti (uomini). La sposa, gracile e giovanissima, circondata dalle donne della famiglia, raggomitolata sul letto nuziale, aspettava ad occhi bassi. In segno di modestia dopo la cerimonia del matrimonio sarà costretta per tre giorni a tenere gli occhi abbassati.
Leggo in un documento ufficiale: «Con la emancipazione della donna sorgono nuovi problemi. Le giovani donne evolute trovano il tipo tradizionale di matrimonio del tutto inconciliabile con le nuove idee». Ma questi problemi non vengono in alcun modo affrontati. Né luoghi né istituzioni permettono ai giovani, ad eccezione di quelli degli strati sociali più elevati, di conoscersi e frequentarsi.
Da Kanpur a Lucknow, lungo il Gange, la campagna è coltivata e verde: cavolfiori, ricino, canna da zucchero, e patate. Ma appariranno presto i segni della grande siccità che ha colpito quest’anno il paese. I raccolti subiranno danni gravissimi. Manca nei villaggi l’acqua da bere. La terra è asciutta, solo brevi stoppie di riso escono dal terreno duro e crepato. Donne e bambini percorrono ogni giorno chilometri per rifornirsi di acqua da bere. Solo un quinto dei villaggi indiani ha l’energia elettrica. La povertà dei poveri s’aggrava ogni giorno. «Il 60 per cento della popolazione — si legge in uno studio recente — vive, o sopravvive, in condizione di povertà estrema, con non più di 71 paisas (cinquanta lire) al giorno».
Il 70 per cento della popolazione è analfabeta. Tutte le riforme sociali promesse o anche decise dal governo sono rimaste lettera morta. Il governo ha tentato recentemente di mettere sotto controllo pubblico il commercio all’ingrosso del riso e del mais e di moltiplicare gli spacci a prezzo fisso per gli alimenti di prima necessità. Ma queste decisioni non possono essere applicate senza il consenso dei Governi regionali, sorretti dai proprietari terrieri, i quali oppongono una resistenza che alla fine prevale. Perciò è stato impossibile finora attuare una vera riforma agraria o tassare la rendita parassitaria. Recentemente una commissione parlamentare ha proposto di istituire una tassa «modesta» sulla rendita fondiaria, ma se queste misure fossero applicate diminuirebbero di colpo il potere del partito del Congresso, che ha la maggioranza nella gran parte dei Governi federali. Infatti questo partito, che con Indirà Gandhi ha ottenuto alle elezioni di quest’anno una forte maggioranza, pur adottando un linguaggio e, molto più raramente, qualche provvedimento progressista, rimane solidamente nelle mani dei proprietari terrieri e della borghesia più conservatrice. La popolazione è aumentata nel decennio 1961-71 quasi del 25 per cento. I programmi di controllo delle nascite non danno risultati significativi, nonostante la radiolina a transistor regalata agli uomini che si fanno sterilizzare. La materia è trattata come «indiscutibilmente privata». In Una cittadina di 10.000 abitanti apprendo dall’assistente sociale locale che solo 30 persone si sono fatte sterilizzare, due terzi delle quali donne.
Le condizioni di vita sono ancora peggiori nei grandi agglomerati urbani come Calcutta, Delhi o Bombay. I bisogni essenziali dell’uomo (lavoro, cibo, alloggio, salute, educazione) appaiono sempre più difficili da soddisfare. Dopo aver superato l’inverno scorso «la più grande crisi dall’Indipendenza», e aver sostenuto bene o male il peso dei rifugiati bengalesi, l’India affronta oggi difficoltà economiche e sociali molto gravi. Molte fabbriche funzionano a metà della loro capacità produttiva e non solo per la insufficienza di energia elettrica dovuta alla siccità, ma anche per lo squilibrio e la mancanza di coordinamento dello sviluppo industriale tra regione e regione. In occasione del 25 esimo anniversario dell’Indipendenza nel mese di agosto, il primo ministro Indirà Gandhi ha sottolineato i passi avanti fatti dall’industria dal ’47 a oggi. Tuttavia il tasso di aumento della produzione industriale è diminuito dall’8 per cento del ’66 al 3 per cento di quest’anno. Le programmate riforme sociali, o la minaccia di nazionalizzare alcuni settori dell’industria privata, da una parte non sono applicate e quindi non mettono in moto uno sviluppo più equilibrato; dall’altra funzionano da remora agli investimenti privati. Gli industriali vedono minacciati gli attuali profitti e invece di investire esportano il loro capitale nelle banche svizzere. Questa esportazione di capitale si realizza con estrema facilità malgrado i divieti di legge. Diffusi per esempio sono gli accordi con gli importatori europei per cui i contratti di vendita vengono fatti a prezzi più bassi di quelli reali e la differenza viene versata direttamente sul conto in banca svizzero dell’industriale indiano. La disoccupazione è aumentata del 22 per cento nel 1971 ; allo stesso tempo lavorano 14 milioni di bambini al di sotto dei dodici anni.
Sui muri delle città si leggono ancora solo un poco sbiaditi, i manifesti della campagna elettorale del febbraio scorso. «Aboliamo la povertà» era lo slogan del partito del Congresso. Sono però sempre mancate le indicazioni delle misure concrete con le quali questa parola d’ordine doveva essere realizzata. Le misure prese fino ad oggi sono state soprattutto simboliche: abolizione dei privilegi e delle pensioni ai mahrajà (che beneficiano comunque di indennità compensative), nazionalizzazione delle banche private e di altri settori «malati» dell’industria. C’è da chiedersi per quanto tempo ancora Indirà Gandhi potrà mantenere questa via di mezzo che cerca inutilmente di conciliare gli interessi contrapposti dei poveri e dei ricchi, in un contesto di democrazia più apparente che sostanziale, e non si rendano invece urgenti delle scelte economiche — e quindi politiche — ben più radicali.