inchiesta

diamoci il permesso di scrivere

La maggior parte delle autrici che presentiamo in queste pagine non ha mai pubblicato da nessuna parte. E’ un mondo di parole, sentimenti, pensieri che diventa la nostra letteratura.

maggio 1979

quando la redazione Effe mi affidò una grande e pesante busta che conteneva centinaia e centinaia di poesie, lettere, favole e racconti scritti da donne, e pervenuti da ogni angolo d’Italia, non mi ero immediatamente resa conto della singolarità di un materiale, che avrebbe in seguito occupato tante e lunghe notti di lettura. Farsi strada attraverso questa montagna di pezzi di carta e di fogli, riempiti da calligrafie spesso indecifrabili, era un’ avventura in parte molto curiosa, in parte piena di ostacoli. Ma la consapevolezza del privilegio di aver fra le mani tutti questi inediti femminili, così sotterranei ed intimi, usciti magari per la prima volta dalle case e mandate alla rivista Effe per essere lette o addirittura pubblicate, aumentava di giorno in giorno un mio grande interesse. Un interesse sempre più stimolato e rinnovato da questo mondo fatto di parole, lettere, sentimenti, pensieri e fantasie tradotto in manoscritti così insoliti, composti di pezzi di carta strappati da un’agenda o da un bloc-notes sul quale si vedevano anche i conti della spesa, o, scritti con uno sforzo di maggiore ordine, sulla solita carta rigata della corrispondenza. Una moltitudine di fogli, senza distinzione -e senza ordine, simile ad un diario collettivo più che a scritti di singole donne. Un diario interminabile che si distingueva e si differenziava solo col lento nascere di parole e di frasi che, nell’immaginario di ogni autrice, si dava una forma diversa. Una forma che poteva nascere dalla libera utilizzazione del mezzo linguistico per “sfogare” la sofferenza e il senso di impotenza di fronte alla scrittura. In una parola, ho ritrovato in questi scritti una denuncia conosciuta tra le donne: quella che nasce dal profondo bisogno di dire l’impossibilità dello scrivere ma di superarla, dicendola e descrivendola. Un processo vitale ed irreversibile, che, superata l’impotenza di fronte alla scrittura, si traduce in tanti verbi. In questo senso ho letto un manoscritto dopo l’altro senza pormi in un primo momento dei limiti di formalità linguistica, né di giudizio sull’utilizzazione di quest’ultima. Queste quasi-poesie, quasi favole e quasi lettere avevano sì fra loro una grande varietà espressiva, ma nel loro contenuto si riconducevano ad un unico ed omogeneo filo. Quello della denuncia. Quello della ferita originaria comune a tutte le donne. Il contenuto che sostanzialmente segna questi testi è questa ferita, che in alcuni scritti appare come un pianto e lamento di una lunga storia che non ha mai conosciuto un luogo in cui deporre questa sofferenza per superarla. La scrittura è perciò spesso vista e vissuta come un luogo di sfogo ma di concentrazione, ricerca e creazione anche. Un luogo in cui si libera la parola liberando il silenzio, descrivendo il silenzio. «Voglio capire cosa c’è nel profondo di me stessa, per capire scrivo», si legge in una delle lettere mandate alla redazione Effe. In altri casi la poesia viene intesa come una risposta che si può dare ai dubbi, alle «ansie che nascono dal mio rapporto dissociato con me stessa, dalla paura della solitudine accresciuta, dal distacco della famiglia, dalle difficoltà di trovare risposte non più ideologiche ma interne, risposte per la mia vita». La maggior parte delle autrici, che non hanno mai pubblicato da nessuna parte, si rivolgono a Effe come ad un’ amica intima con cui confidarsi. Si danno il permesso di affidare il loro prodotto (segreto, nascosto) a qualcuno (a) che lo coglie e che lo valorizza, Effe non è dunque più solo una rivista che si legge ogni mese, ma diventa una cara amica, che sta nella grande capitale, che accoglie nel suo “luogo sacro” della stampa, della produzione (visibile), della distribuzione, tutte queste testimonianze di vite fino ad ora anonime. Diventa un luogo in cui, per chi si è mossa nei sotterranei della storia (per chi dunque l’ha fatta), ci si fa protagonista, e portavoce. «Scrivervi è stato uno sfogo per uscire dall’isolamento», «scrivere, come una cosa da cui vergognarmi, l’ho fatto di nascosto, nascondendolo lo proteggo», «ho sfogato la mia rabbia in questo scritto», «nessun capolavoro, nessuna opera d’arte vale questo nostro lungo silenzio», si legge nelle lettere con le quali le donne presentano le loro poesie. Con le quali le giustificano e si scusano, e con le» quali si danno il permesso di scrivere. La presenza del femminismo e della sua coscienza occupa queste poesie da tutti i punti di vista. Ne sono l’origine e la ragione, il sopporto ideologico (della denuncia, del pianto, del lamento) e la critica ideologica e politica che ha aperto il varco al privato e alla sua descrizione. Alcuni dei testi prendono perfino la militanza femminista come punto di partenza per una creatività poetica. Così nascono poesie politiche, così nascono i pamphlets. Si tratta di poesie che denunciano non solo l’oppressione della donna, ma la violenza politica e fisica diretta. Ho scelto come esempio la poesia che riguarda la morte di Ulrike Meinhoff. Decidere la scelta delle poesie da pubblicare è stato quasi impossibile. In parte perché lo spazio che la rivista può mettere a disposizione è molto limitato rispetto al grande numero di testi mandati in redazione. Tuttavia mi è sembrato doveroso tener conto in particolare di quei testi che riuscivano a “completare” la forma e la ricerca stilistica con il contenuto. Un esempio da rilevare per la sua singolarità è per esempio il testo intitolato “Agenda anonima”, trovata per caso in cucina dalla figlia e mandata alla redazione Effe. Alla prima lettura questa “Agenda anonima” appare come uno scritto del tutto fuori luogo, comune né alla tradizione poetica, né al racconto, né alla favola. E’ invece un pezzo di diario di una casalinga che racconta semplicemente la vita di tutti i giorni, che parla col tempo, con le idee che passano nella sua testa scrivendole poi, con l’immaginazione, con parole che butta sulla carta in un modo in apparenza del tutto casuale ma con una capacità straordinaria di legare parola a parola, ritmo a ritmo, frase a frase, facendone uno di quei testi che costringono la letteratura tradizionale «ad uscire dalla sua ricorrente tentazione alla contemplazione di sé a confrontarsi con la politica, l’antropologia, la psicoanalisi, la biologia, la vita quotidiana», come scriveva Bianca Maria Frabotto in un saggio apparso su Quotidiano Donna a proposito di poesie di donne. Cosa significa sostanzialmente per una donna scrivere? Credo che sia impossibile rispondere a questa domanda sia con la scelta dei testi alla quale sono costretta di ridurre questo lavoro, sia con le riflessioni che mi sono permessa di fare. Ma quante volte si sente dire: «ho molta voglia di scrivere ma non so come e cosa scrivere. Sono bloccata…». La difficoltà si instaura nell’istante stesso in cui si cerca di delineare il luogo della scrittura attribuendo ad essa un ruolo «fuori del tempo e del sentimento», fuori del vissuto quotidiano, fuori del corpo. Chi si pone con insistenza queste domande si rende invece conto quanto l’esperienza della scrittura diventi un’esperienza radicale del linguaggio e quasi, di vita e di morte. Le donne per esempio scrivono perché sono dettate dal loro corpo. Per questo è essenziale riuscire a vedere il proprio linguaggio, di mettersi al di dentro, osservando come esso si scrive. In questo senso il testo diventa il luogo stesso in cui uno depone tutti i giochi che esaltano sia le sublimazioni,, sia le sue doppiezze (il femminile, il maschile), sia le sue tendenze di negare tutto ciò. Il testo diventa il focolaio in cui si depone la lingua materna. Chi scrive dunque è qualcuno che gioca con il corpo della madre (questo lo riporta alla sublimazione, alla doppiezza, alla negazione) per glorificarlo, per renderlo più bello, per portarlo ai limiti di quello che può essere riconosciuto dal corpo stesso. Tende però anche, e spesso, alla defigurazione della lingua, alla defigurazione della natura stessa. Il linguaggio è dunque sessuale, ha due sessi. Non credo che però si possa dire che ci sia una scrittura maschile e femminile, credo piuttosto che si possa parlare di un punto di vista maschile o femminile. Un punto di vista che alla lettura stessa di un testo si forma, si interpreta, si distingue. Così penso che si legga la parola “tavola” o “casa” in un modo diverso quando è scritto da una donna invece che da un uomo, perché ad esse si attribuisce “automaticamente” un suo senso sociale e simbolico.

Oggi questo senso sociale e simbolico emerge per la sua diversità e divisione sessuale in un ordine che valorizza anche il suo aspetto femminile. Qui parliamo di letteratura solamente, ma è una tematica che si potrebbe allargare su tutto il campo della battaglia che le donne hanno innescata. Una battaglia per nuove norme culturali, nate dalla coscienza femminista e dalle esperienze che questa coscienza ha sviluppato. In questo senso si tratta di occupare in modo incondizionato le lacune della letteratura tradizionale. Credo che si possa affermare che dall’inizio degli anni sessanta e settanta sia nato un legame dialettico ed irreversibile fra scrittrici e pensiero femminista. Questo ha portato la letteratura femminile ad esprimersi nel campo del sentimento (tentando una teoria di esso), dell’esperienza, della fantasia, del privato, con un’apertura nuova. Le poesie che seguono sono poche e non abbastanza rappresentative rispetto al materiale che dovrà ritornare negli archivi di Effe. Ma esse sono una parte delle testimonianze che segnano questa entrata delle donne nel mondo della letteratura. E queste donne non sono più solamente quelle che hanno avuto accesso all’educazione e tutta per se stesse (condizione necessaria allo studio, ma sono tutte quelle che continuano a non avere una stanza saria per chi vuole scrivere, secondo Virginia Woolf), ma che in cambio hanno una promessa, prodigiosa, tutta loro, tutta da scrivere.