una legge su cui continuare a lottare

Alcune proposte di modifica della 194 sono emerse dal Convegno del Coordinamento nazionale.

maggio 1979

durante i lunghi anni in cui si discuteva dell’aborto, argomento così negato che già parlarne ad alta voce sembrava ed era una conquista, nei collettivi e nelle assemblee volavano e rimbalzavano due o tre parole sulle quali si intrecciavano appassionate discussioni: depenalizzazione, liberalizzazione, regolamentazione.

Le parole erano difficili e sconosciute ma le donne sapevano bene quello che volevano. Infatti, ad un certo momento, nella grande maggioranza si trovarono unite nel gridare che non volevano una legge “sulla pancia delle donne” e più tardi, quando apparve chiaro che il “compromesso” avrebbe portato all’approvazione di una legge limitata e poco applicabile, le donne chiesero che si facesse quel referendum già indetto e che era slittato per lo scioglimento anticipato delle Camere. Quello che le donne volevano era in definitiva, la “liberalizzazione” e cioè la facoltà di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza senza dover passare attraverso pratiche e permessi. La legge 194 invece non “liberalizza” ma regolamenta l’aborto: cioè lo consente solo in determinate condizioni. Attualmente, salvo pochi paesi (Svezia, U.R.S.S., U.S.A.), in cui è liberalizzato, quasi ovunque nel mondo l’aborto è regolamentato e l’esperienza ha dimostrato che le leggi di “regolamentazione” non sconfiggono l’aborto clandestino. Infatti, indipendentemente dalle difficoltà che si incontrano nell’applicazione, è il fatto stesso di dover sottostare a determinate condizioni, di dover passare attraverso determinate procedure che scoraggia le donne e fa loro preferire la clandestinità. Naturalmente però la situazione è peggiore dove le leggi sono più vincolanti o vengono applicate in modo inefficente o restrittivo.

La legge italiana è migliore di quella inglese perché riconosce l’autodeterminazione o di quella francese perché garantisce la gratuità, ma incontra grossi ostacoli nell’applicazione. Dal Convegno del Coordinamento Nazionale per l’applicazione della legge 194/78 che si è tenuto a Roma nei giorni 16-17-18 marzo è emerso che solo il 20 per cento degli interventi di interruzione di gravidanza è stato praticato nelle strutture pubbliche (la percentuale è calcolata sulla base del numero di aborti clandestini in Italia secondo l’O.M.S.). Le cause sono state individuate in una serie di difficoltà, tutte riconducibili fondamentalmente ai guasti provocati dall’abuso della facoltà concessa dalla legge ai medici e paramedici di invocare l’obiezione di coscienza, al limite posto alle minorenni, alla disapplicazione strisciante che la legge di fatto consente. Accanto ad una serie di azioni che il coordinamento ha deciso per imporre agli Enti Locali (Regioni, Comuni) e agli Enti Ospedalieri, una applicazione della legge più rapida e puntuale sono state discusse anche alcune proposte di modifica legislativa. Va risolto, innanzitutto, il problema della minorenne.

Il Coordinamento propone che la libertà di decidere debba essere estesa alle donne che abbiano compiuto i 14 anni e che il consenso dei genitori debba essere richiesto solo al di sotto di tale età.

E’ bene ricordare, a questo punto, che in alcuni paesi (ad esempio Finlandia) una delle circostanze in base alle quali l’intervento è consentito (anche in Finlandia l’aborto è “regolamentato”) è proprio il non aver compiuto 15 anni. Bisogna ricordare poi che le leggi italiane prevedono in molti casi la libertà di decidere e disporre di sé ai minori. Per il diritto penale, ad esempio, è punibile chi ha diritto i 14 anni, nel campo del diritto civile e del diritto del lavoro molte norme riconoscono la capacità a 15enni e 16enni. D’altra parte, nel momento in cui si. impedisce alle minorenni di scegliere l’aborto, le si consente di decidere di essere madri!

 

ma alla fine vogliamo

la liberalizzazione

Per quanto riguarda le strutture, contro la proposta di riprivatizzare l’aborto sostenuta per . diversi motivi, dai radicali e dal Dott. De Marchi, il Coordinamento ha scelto di sostenere l’obbligo dello Stato di assolvere ai suoi compiti nelle strutture pubbliche, assicurando l’assistenza e gratuità. Allo scopo di garantire alle donne rapidità, certezza, riservatezza, il coordinamento propone una serie di emendamenti per correggere le distorsioni che sono state rilevate in questi mesi. Innanzitutto è necessario imporre agli ospedali di effettuare l’intervento entro un determinato tempo a partire dal momento in cui la donna presenta il certificato rilasciatole dal medico di fiducia o dal consultorio. Attualmente la legge prevede che il certificato costituisca titolo per ottenere l’intervento in via d’urgenza, ma negli ospedali si vedono interminabili liste di attesa che hanno risospinto le donne verso l’aborto clandestino.

Imporre la scadenza di un termine di otto o dieci giorni significherebbe dare un contenuto più vincolante al concetto di urgenza.

Inoltre agli ospedali può e deve essere imposto un numero minimo di interventi settimanali. La legge oggi prevede che le cliniche autorizzate debbano fare un numero di interventi di interruzione della gravidanza non inferiore al 20 per cento. Perché non prevedere tale soglia o anche una più equa del 30 per cento per gli ospedali pubblici? Oggi assistiamo ad una forma di disapplicazione strisciante della legge; che altro significa infatti fare due aborti alla settimana o sei al mese? Quanto alle cliniche convenzionate,

una proposta del Coordinamento è quella di non rinnovare le convenzioni a quelle cliniche che non hanno chiesto l’autorizzazione a praticare l’aborto. Se non vogliono applicare una legge dello Stato, perché devono godere del danaro dei contribuenti? Una riflessione ugualmente rigorosa corre sotto le proposte del Coordinamento di modificare la legge per stabilire che l’obiezione di coscienza non sia consentita ai medici che scelgono di lavorare dentro le strutture pubbliche dopo l’entrata in vigore della legge. Nessuna legge del nostro Paese infatti vieta l’esercizio dalla professione medica privata, né preclude ai privati di gestire cliniche e casa di cura dove possono trovare lavoro medici e paramedici.

Chi non intende sottoporsi alle leggi dello Stato è libero di lavorare nelle strutture private.

Non si possono invocare, infatti, i principii Costituzionali dell’uguaglianza (Art. 3) o della libertà di pensiero (Art. 18) per consentire a qualcuno di essere più “uguale” o più “libero” e cioè di poter lavorare nelle strutture pubbliche e poi poterne ostacolare ì compiti imposti dalla legge. Un’altra modifica della legge proposta dal Coordinamento è quella di escludere la facoltà di invocare l’obiezione di coscienza nei confronti dei medici che devono rilasciare il certificato o il documento: dal momento infatti che la legge riconosce alla donna la facoltà dì decidere, non si vede in che modo è coinvolta la coscienza del medico! Finora ottenere il certificato non è stato certo la maggiore difficoltà malgrado che in molti luoghi i consultori non sono stati ancora aperti, però il non aver limitato l’obiezione di coscienza a coloro i quali devono materialmente praticare l’intervento ha creato equivoci e dubbi, ha ingigantito ed enfatizzato il fenomeno dell’obiezione di massa, ha reso più difficile ed -angosciosa la situazione della donna. Il Coordinamento poi, allo scopo di mettere in grado le Regioni di attuare nuove assunzioni o convenzioni per garantire l’attuazione della legge, ne propone il rifinanziamento. In fine, in considerazione del fatto che ancora oggi si ricorre all’aborto clandestino a causa delle gravi carenze nell’applicazione della legge, il Coordinamento propone di abrogare le norme che prevedono sanzioni penali a carico delle donne.

Più a lungo termine la battaglia dovrà essere per una totale liberalizzazione.