questione femminile

scontro su una “tesi”

«E’in grado oggi il PCI di comprendere le mutazioni della realtà e di cogliere la centralità del soggetto donna all’interno di questo?».

maggio 1979

a conclusione dell’ultimo congresso del PCI, una formula di chiara matrice femminista, nuova nel linguaggio ortodosso delle tesi, è stata al centro dell’emendamento sulla questione femminile votato da 434 delegati contro 385: sulla donna grava tra le altre “l’oppressione che si è storicamente determinata nel campo della sessualità”. La stampa di sinistra ha presentato la vicenda come una “svolta” all’interno del partito, l’emergere di un “nuovo continente dopo quello femminista, quello della donna comunista, soprattutto comunista-femminista”, come scrive Laura Li-Ili su Repubblica del 7 aprile. Siamo, dunque, alla doppia militanza, un tema non nuovo per il movimento femminista e che presenta una sua esemplarità ricca di spunti per il rapporto più generale tra movimenti e partiti. Sull’Unità del 17 aprile, Luisa Melograni lo riprende, distinguendo in modo schematico e riduttivo tra una presunta area di femminismo-femminismo e un’altra di femminismo-comunismo, per rivendicare astrattamente esperienze significative di doppia militanza al mondo istituzionale: si attribuisce genericamente alle donne italiane “un desiderio di misurarsi con il mondo dell’uomo, che è quello della politica e quindi di non chiudersi nel ghetto, dì non autoescludersi”. Se è vero che la scoperta femminista della contraddizione uomo-donna negli anni 70 è maturata in un’area politica garantita da forme emancipatone di sinistra (in questo senso va sottolineato il ruolo dell’Udi, timido e non lineare, ma sostanzialmente positivo e, va ricordato, sottovalutato e deriso dai compagni maschi), è anche vero però che alle donne in Italia a differenza che negli altri paesi, dove c’è una presenza ri vendicativa e conflittuale all’interno delle istituzioni, non è stato permesso un confronto maggiore sul terreno .dell’emancipazione con il lavoro e il tema dell’istruzione. Da qui anche la radicalità del femminismo italiano che si lega alle dissacrazioni del ’68 ma apre nuove contraddizioni nelle realtà politiche date, di cui la doppia militanza è proprio il primo esempio: questa esperienza, infatti, ha caratterizzato la pratica femminista di molte compagne della nuova sinistra nei primi anni 70. Ma non ne ha toccato altre, che legittimamente si collocano nel!’ area del movimento. Le donne hanno infatti imparato che affrontando la lo-lo contraddizione specifica costruiscono una solidarietà spesso più minacciata dai diversi retroterra politici e culturali che verificabile in questi. Nel movimento sono confluite perciò matrici e suggestioni diverse: il pragmatismo radicale, echi della scuola di Francoforte, correnti culturali antiautoritarie come il lacanismo di sinistra e l’antipsichiatria anglosassone. Ma tutto è stato per così dire metabolizzato o parzialmente riespulso a livelli di spontaneità. Oggi il referente politico “maschile” è cambiato con la scomparsa della nuova sinistra e il riemergere della doppia militanza ripropone problemi vecchi o ne crea di nuovi non tanto per la presenza di un partito “storico” quanto per la diversità delle donne che la vivono. Per tornare al dibattito congressuale del PCI si nota una preoccupante ripetitività di contenuti e posizioni già apparse all’interno della pubblicistica teorico-divulgativa di questi ultimi due anni. Nell’intervento stesso di Berlinguer, in apertura dei lavori, si ribadisce l’assunzione del femminismo come altro da sé, “valore” che per nulla incide sulla fisionomia del partito. Di fronte alle nuove ipotesi di politicità già espresse problematicamente dalle stesse femministe del partito (a questo riguardo è interessante la ricca e contrastata vicenda di Rosa, una rivista fiorentina di donne del PCI pubblicata dal 74 al 76 e scomparsa dal mercato librario dopo aver provocato burrascose reazioni in alcune sezioni) il PCI continua a valutare il femminismo più come ipotesi culturale che politica, limitandosi ad accettarne i “valori nuovi” (sessualità, critica del privato, sviluppo della soggettività) separati dalle pratiche politiche che ne permetterebbero la piena espressione. In quest’ottica si spiegano bene gli accenni ritualistici alla “questione femminile” che hanno punteggiato alcuni interventi, facendo del femminismo una specie di fiore all’occhiello che illeggiadrisce un tristissimo abito scuro. Ben più dirompente invece il senso del discorso di Ingrao, che ha affrontato coraggiosamente la crisi della cultura occidentale, confrontandosi con le difficoltà dello stesso marxismo di fronte all’emergere di “culture policentriche” in trasformazione: che è anche un modo di guardare al femminismo più stimolante di qualsiasi attestazione, C’è da chiedersi che. seguito abbia questo tipo di problematica nel dibattito e nella pratica interna. Intanto sembrano emergere inquietanti tendenze come quella di dare più spazio alle donne dentro al partito con più cariche direttive, riesumando un vecchio modello di emancipazione “competitiva” che mina ogni tentativo di aggregazione e solidarietà femminile che potrebbe invece esprimersi in strutture diverse dentro al partito stesso. Mentre alla vigilia di (nuove consultazioni elettorali si illanguidisce la’ fiducia che già alle precedenti elezioni ha portato molte donne a votare PCI nella speranza di avere spazi emancipatori più larghi nei quali inserire creativamente le proposte di liberazione affidate al movimento. E’ in grado oggi il PCI di comprendere le mutazioni della realtà e di cogliere la centralità del soggetto donna all’interno di queste?