ruoli: l’esperienza svedese

maggio 2015

 

«La divisione delle funzioni deve essere cambiata in modo tale che in una famiglia vengano offerte sia all’uomo che alla donna le stesse possibilità pratiche di svolgere con successo il loro ruolo di genitori senza tuttavia rinunciare alle soddisfazioni del lavoro».

La Svezia ha dato l’avvio a questa politica nel 1968 ed i Liljekwists sembrarono raccoglierne perfettamente il messaggio. Per tre anni Ulla, designer di successo e madre di due bambini, si era considerata una donna fortunata. Suo marito, Rune, aveva rinunciato al suo lavoro per dedicarsi alla cura della casa, lasciando ad Ulla il compito di mantenere la famiglia. Tutte le sere, di ritorno a casa, ella trovava l’accoglienza affettuosa del marito e dei figli, la tavola apparecchiata e la cena pronta. I Liljekwists avevano vissuto i loro primi anni insieme senza preoccuparsi eccessivamente del ruolo che ciascuno di loro svolgeva all’interno del ménage. Dal lavoro percepivano stipendi pressoché equivalenti e, a casa, si dividevano i compiù secondo un giusto equilibrio.

Le cose cambiarono quando nacque il primo bambino. Nelle vicinanze non c’erano asili-nido, gli aiuti domestici erano introvabili, non esisteva nessuna nonna pronta ad intervenire. Uno di loro doveva restare a casa, ma Ulla, come Rune, non aveva alcun desiderio che la scelta cadesse su di lei. Per risolvere il problema decisero di chiedere

ai rispettivi datori di lavoro un aumento. Quello dei due che avesse ottenuto di più, avrebbe continuato a lavorare. E quando Ulla tornò con l’offerta migliore, Rune mantenne la parola e si trasformò in «hemmaman» (il nostro «uomo di casa»).

Quando i Liljekwists mi raccontarono la loro storia, tre anni fa, questo scambio di ruoli mi sembrò una soluzione estremamente pratica e moderna. Pensai a tutte le casalinghe di questo mondo che sognavano di poter prendere il posto del marito: avere il suo lavoro, guadagnare lo stesso stipendio, essere felici di restare a casa la sera e il fine settimana con un compagno docile e innamorato. Tuttavia qualcosa nella situazione stonava. Cominciai a domandarmi se un tale ménage fosse veramente ideale come sembrava. Dava più l’impressione di un fragile compromesso, basato unicamente sulla buona volontà di una persona, il marito. Che cosa sarebbe successo se egli avesse improvvisamente deciso di averne abbastanza? Dopo tutto non ci si sarebbe potuto aspettare da nessun uomo che accettasse per sempre un tipo di vita che le donne stesse stavano rifiutando. Il mio scetticismo venne confermato poco tempo fa dalla stessa Ulla, durante un nostro fortuito incontro a Stoccolma. «Come sta Rune» le chiesi «è ancora felice di occuparsi della casa»? «E’ tutto cambiato» mi rispose singhiozzando «Alcuni mesi fa si è stancato del lavoro di casa ed ora si occupa solamente di politica senza guadagnare un centesimo. Così io ho dovuto tenermi il lavoro e occuparmi anche della casa e dei figli dal momento che Rune torna sempre molto tardi. Non ce la faccio più!» E’ chiaro che è necessario molto più di una inversione di ruoli per assicurare una parità duratura nei rapporti interpersonali. Le eventuali alternative sono ben più complesse.

La Svezia sta cercando di individuarle e si è impegnata, più che qualsiasi altra nazione, a risolvere il problema, iniziando con l’eliminare la discriminazione sociale e sessuale. Questo piccolo paese del Nord Europa è stato guidato, negli ultimi 30 anni, da governi socialisti, e la sua economia semi-capitalistica con stretto controllo socialista e molti benefici sociali, ha portato i cittadini ad uno standard di vita secondo soltanto agli Stati Uniti. Le cure ospedaliere sono gratuite, un terzo del bilancio nazionale è stanziato per le spese di miglioramento sociale, il 30% della popolazione adulta è occupata nel miglioramento dell’istruzione di adulti. Ogni famiglia con dei figli ha diritto a una sovvenzione da parte dello Stato per ognuno di essi. Durante gli ultimi dieci anni la Svezia ha lottato compatta per raggiungere l’uguaglianza sociale ed economica fra tutti i cittadini indistintamente. Ricordo che al mio primo viaggio in Svezia, quando incontrai Ulla e Rune, il governo, i sindacati, e numerosi gruppi di cittadini si interessavano al problema del ruolo dei sessi. Lo scopo era quello di cambiare la condizione delle donne così da impedire che esse venissero sfruttate dalla famiglia, dai datori di lavoro e dalla società. Il primo risultato considerevole di questo dibattito venne da un gruppo di intellettuali — uomini e donne — che si denominavano «Giovani Liberali» e che affermavano che il nocciolo della questione era da rintracciarsi non soltanto in astratti principi ugualitari, ma soprattutto in quelle realtà socioeconomiche che raramente tali principi riflettono.

Un membro di questo gruppo era Eva Moberg, 40 anni, nota come figlia di Cari Moberg, uno dei migliori romanzieri svedesi. Eva aveva scritto nel 1961 un saggio che puntualizzava due principi fondamentali nell’attuale cultura femminista: 1) non può esserci uguaglianza dal momento che le donne che lavorano sono obbligate ad assumersi il doppio ruolo di lavoratrici e casalinghe,, mentre il ruolo dell’uomo è unico; 2) la gentilezza e la comprensione sono qualità che non dovrebbero essere inculcate nelle donne solamente, ma che dovrebbero essere coltivate’ anche dagli uomini. Il Partito Socialdemocratico che controlla la vita politica del paese, fu svelto ad appropriarsi di questi due nuovi principi e nel suo rapporto del 1968 alle Nazioni Unite sulla condizione della donna svedese, il governo dichiarò pubblicamente la sua posizione: «Il problema dei diritti della donna deve essere considerato come una funzione dell’intera struttura dei ruoli e della divisione del lavoro imposta sia all’uomo che alla donna per mezzo dell’educazione, della tradizione e della esperienza (e in parte minore da un certo tipo di legislazione). Non può essere raggiunto alcun cambiamento decisivo nella distribuzione delle funzioni tra l’uomo e la donna se si afferma a priori che i doveri del maschio devono restare immutati. La divisione delle funzioni tra i due sessi deve essere cambiata in modo tale che sia all’uomo che alla donna vengano offerte, nell’ambito della famiglia, le stesse opportunità pratiche di partecipare con successo al ruolo di genitore e a quello di lavoratore. Se le donne devono avere una posizione nella società al di fuori dell’ambiente domestico, gli uomini devono, come conseguenza, assumersi maggiori responsabilità nell’educazione dei figli e nel lavoro di casa. Una forte opposizione a questa proposta venne dalla frangia più conservatrice della popolazione. Ma il Partito Socialdemocratico non aveva alcuna intenzione di desistere e chiese ad Alva Myrdal, una delle donne svedesi di maggior prestigio, di proporre una serie di direttive tese a raggiungere non soltanto l’uguaglianza tra classi sociali, ma anche tra uomini e donne. Il suo rapporto fu adottato al Congresso del Partito nell’autunno del 1969: «Sebbene l’uguaglianza sia stata raggiunta in linea di principio, essere donna è ancora uno svantaggio nella maggior parte delle occupazioni e tale discriminazione va combattuta, I governi centrali e locali devono attuare una politica che non offra solo uguali possibilità, ma che incoraggi la donna a dare il meglio di se stessa. Bisogna eliminare, nel lavoro, la discriminazione a proposito di assunzioni, avanzamenti e salari ed è in questo senso che va approfondita l’educazione politica del paese».

In un momento in cui il resto del mondo si chiedeva ancora se le donne «dovessero» lavorare, in Svezia la costruzione di asili-nido sovvenzionata da] denaro dei contribuenti, era diventata priorità nazionale.

Lars-Olaf Lundberg, leader del sindacato rappresentante il 90% degli operai industriali, affermava che il problema delle donne lavoratrici era incentrato sulla mancanza di adeguate strutture assistenziali per i propri figli. «La società — aggiungeva Lundberg — deve assumersi alcuni dei compiti che gravano generalmente sulle madri, così che esse possano assicurarsi l’indipendenza economica anche quando i figli sono molto giovani. Ed è bene per gli stessi bambini abituarsi al contatto giornaliero con i loro simili. Gli enti assistenziali per l’infanzia sono quindi indispensabili al nucleo familiare». Nel 1960 solo il 30% delle donne sposate lavorava; attualmente tale percentuale ha raggiunto il 53% e arriverà al 60% entro il 1980. Più della metà delle madri con un figlio sotto i sette anni lavorano. Tra il 1965 ed il 1970 il numero di posti disponibili per asili nido è cresciuto del 700%. Oggi la cifra è salita a 45.000, più un uguale numero di posti disponibili presso le «madri a giornata» (casalinghe a cui, dopo un corso di 80 ore, viene permesso di ospitare nelle loro case bambini i cui genitori lavorano). Tuttavia tali disponibilità possono soddisfare solo il 40 % della richiesta. Scuole ed insegnanti stanno lottando per abituare le ragazze a non considerarsi soltanto future casalinghe. A tutti i bambini, senza discriminazione di sesso, vengono insegnati lavori manuali e lavori domestici (fra i quali è compresa la cura del bambino). Come reagiscono gli adolescenti di fronte ad un simile capovolgimento di ruoli? In una recente statistica è risultato che il 92% dei ragazzi nutrivano seri dubbi sulla opportunità di imparare l’arte di tenere la casa pulita o di allevare perfettamente un bambino. Molti di questi dubbi vengono però fugati con l’aiuto dei nuovi libri di testo svedesi in cui si incontrano, per esempio, ragazze in tuta da meccanico e ragazzi nurses. Di recente sono stati presi alcuni provvedimenti per permettere alle donne di rifarsi del tempo perduto durante la maternità. Per esempio, quando fu votata la riforma universitaria che autorizzava ogni persona adulta, anche sprovvista del diploma necessario, a frequentare l’università dopo cinque anni di attività professionale, tale diritto venne esteso anche alle madri che, durante lo stesso arco di tempo, fossero state costrette a restare in casa per allevare i figli.

Ultimamente il governo ha stanziato capitali notevoli per la costruzione di alloggi modello, una sorta di «alberghi per famiglie», dove vengono ospitate quelle famiglie appunto in cui entrambi i coniugi lavorano. Uno di questi si trova ad Hasselby, un sobborgo di Stoccolma. Esso offre ai suoi 800 inquilini un supermercato, un ristorante, una nursery per bambini al di sotto dell’età scolare ed un doposcuola per i più grandi, un’infermeria, camere private con servizio di segreteria ed una agenzia che si occupa di trovare collaborazioni domestiche. Ogni mattina i genitori affidano i figli a personale specializzato, sia nella scuola che negli asili, e durante la loro assenza i servizi centralizzati, su richiesta, risolvono i loro problemi quotidiani (casa, posta, banca etc). Di sera la famiglia mangia al ristorante, utilizzando i 21 buoni pasto mensili, o, se preferisce, porta a casa il pasto già pronto. L’affitto supera di appena il 10% quello dei normali appartamenti.

Malgrado le comunità modello e la legislazione incoraggiante rimangono però nella struttura sociale svedese alcune incongruenze di fondo. Prima fra tutte il rifiuto delle autorità a concedere il libero aborto. Le leggi svedesi erano state considerate per molto tempo le più avanzate nel mondo. Dal 1938 esistevano quattro motivi legali per interrompere la gravidanza: pericolo per la salute della madre, pericolo per malattie mentali del bambino, stupro e condizioni medico sociali che non avrebbero permesso ad una donna o ad una famiglia di allevare un bambino in modo soddisfacente.

Nel 1963 i motivi divennero cinque per l’aggiunta della deformazione fisica del feto a seguito di ingestione da parte della madre di medicinali pericolosi. Ma un aborto deve essere autorizzato da una commissione medica. L’autorizzazione è prontamente concessa in alcuni dei grandi ospedali di Stoccolma, ma è praticamente impossibile ottenerla in quelli dei piccoli centri di provincia dove i medici sono ancora contro l’aborto. Malgrado gli sforzi ufficiali non ci sono stati grossi cambiamenti nella vita della maggioranza degli svedesi. Fatta eccezione per i giovani e gli intellettuali ci sono pochissimi uomini che si assumono la loro parte di responsabilità domestica. Tra le donne, persino tra le ragazze, la nuova coscienza emerge molto lentamente. La massa appare dubbiosa circa l’uguaglianza dei sessi e continua a propagandare l’immagine della donna oggetto. L’influenza dei modelli familiari rimane così forte che molti anni di indottrinamento scolastico non sono sufficienti a rendere le mete professionali dei giovani diverse da quelle di cinque o dieci anni fa. E gli stessi insegnanti non sempre sono all’altezza delle nuove teorie. Secondo i gruppi radicali di liberazione della donna di recente formazione tutto ciò mostra chiaramente i limiti del riformismo. Il più noto tra questi gruppi, il «Group 8» ha pubblicato un manifesto che dichiara: «anche se le donne riusciranno ad ottenere la parità con gli uomini, esse non saranno libere prima che siano liberi anche gli uomini». Le donne devono partecipare attivamente alla rivoluzione socialista, si afferma «dal momento che la rivoluzione non può liberare le donne se prima esse stesse non riescono a liberarsi».

da un testo di Claude Servati Schreiber