teatrodanza
caffè muller
un affascinante esperimento sul linguaggio, cioè sul mondo, un modo singolare di fare teatro e danza insieme che può sconcertare o appassionare.
Quando ero piccola sentivo frullare, inespressa, nella testa delle donne, anche le più coraggiose e intelligenti, una domanda balorda: «nasceranno mai un Michelangelo, un Dante Alighieri, un Raffaello, un Giuseppe Verdi ‘in gonnella’?».
Quell’ingenuo, goffo e un po’ insultante «in gonnella», testimonia dell’epoca in cui (almeno dal punto di vista della maturità della nostra coscienza) quella domanda veniva formulata. Era l’epoca in cui circolava, sui rotocalchi a grande tiratura tipo «Gente», «Oggi», «ABC», la celebre battuta dello scià di Persia «le donne non sono mai neppure diventate grandi cuochi».
Ora, di certo, i tempi sono cambiati; domande del genere sono rimaste sepolte in qualche luogo sconosciuto della nostra mente, non ci tormentano più né ci vengono in mente. Eppure è rimasto, credo, nel profondo di molte di noi, il desiderio dì conoscere un giorno una mente di donna capace di tentare «la grande ricapitolazione» dei diversi punti di vista sul mondo, di creare uno stile, una scuola, un corpus di opere tali da obbligare finalmente questo nostro tempo a coniare il femminile di «grand’uomo».
Nessuna di noi ha più voglia di correre dietro ai primati del mondo degli uomini; siamo diventate tutte, in questi anni, discretamente abili a disincagliare le nostre fragili barche dalle secche dell’emancipazione ad ogni costo. Eppure riconosciamo ancora, e a volte disperatamente, di aver bisogno di modelli, nel senso, intendo, di figure di riferimento a cui poter ancorare le nostre vie di ricerca personali; punti di riferimento, indicatori di direzione, insomma tutta quella galassia di esperienze altrui che hanno sempre assicurato ai nostri uomini la possibilità di scegliere, per analogia o per contrasto, chi e che cosa diventare. Ebbene, nell’ormai piuttosto fitta galassia femminile di punti di riferimento, Pina Bausch può essere considerata indiscutibilmente una delle fonti più ricche da cui attingere.
Il suo teatro, composito ed elaborato, filtrato attraverso una sensibilità di chiara derivazione coreografica (la Bausch è una danzatrice e danzatori sono tutti i componenti della sua compagnia) è una splendida magmatica e inesauribile ricapitolazione del mondo e della cultura del nostro secolo. Il suo punto di vista sul mondo è articolato ed esteso fino al massimo della dilatazione possibile o conciso e rappreso fino al limite dell’esperienza sintetica.
Le due opere da lei rappresentate a Roma, al Teatro Argentina, «Cafè Muller» e «1980» sono i due estremi ideali, per dilatazione e concisione, di un affascinante «esperimento sul linguaggio». Cioè sul mondo. Ora, che cosa si può dire di un teatro che è insieme scomposizione e ricapito lazione drammaturgica del mondo e di se stesso? Non si può, secondo me, far altro che lasciarsene trapassare, scartando il punto di vista di chi separa il buono dal cattivo. A che vale in questi casi fare la conta dei «già visto», «già sentito»?
Meglio accettare fin da principio la sfida a viverci dentro: dunque subire compostamente la tazza di the che ci viene offerta, toccare il culo ai bei ragazzi, sciorinare senza ritegno tutta la gamma dei propri comportamenti sociali, scialacquando in una sola serata l’ipocrisia più rigidamente formale, la paura inconfessata, l’allegria, la passione.
E poi? A cosa può servire questo abbandono, questa sorta di rinuncia senza rimpianto al nostro bel vestito dispettatrici paganti? Forse (ma è solo un’ipotesi), a ristabilire contatto con la nostra coscienza vigile, con quel meccanismo biologico silenzioso che tiene per noi i contatti col mondo. Mettere in gioco per una sera tutto il nostro prezioso patrimonio di maschere riconsegnandole al «Teatro», mescolarci a quel mosaico balordo di vite vissute nel quale potremmo riconoscere la nostra, può aiutarci a ristabilire le dimensioni del «dramma»: quello giocato sulla scena e quello che ci giochiamo ogni giorno.
Naturalmente c’è molto di buono e molto di cattivo nel corso di questa lunga odissea teatrale, prima di poter tornare e rivedere «le amate sponde» dell’isola da cui si era salpati: per compiere il difficile periplo di circumnavigazione dell’esistenza non basta essere astuti e di mille risorse. Ma infine: il viaggio è compiuto. E si tratta, come si legge nei programmi di viaggio, di un’«esperienza indimenticabile», alla quale nessuno di quelli
che l’hanno vissuta fino in fondo vorrebbe aver rinunciato per nessun motivo.