femminismo

io carla lonzi

alcune pagine di diario che sono immagini di sé, delle altre donne, di questi dieci anni di femminismo.

novembre 1982

1972
1 nov. Sono seduta sul letto dell’hotel Principe a Firenze. Alle otto mi sono alzata e, da sola, sono andata in giro: era bellissimo sui lungarni, mattina limpida e sole caldo. Ieri Simone è venuto a casa con una scatola di cioccolatini e ha conosciuto mia madre: dopo esattamente nove anni che ho una relazione con lui. Mi è venuto da pensare che forse l’ho presentato alla fine della relazione. La sera mio padre ha detto che non vuole incontrarlo, non ne vede la necessità. Ha chiuso l’argomento con un “Lascia stare”. Ho ritrovato mio padre come l’avevo conosciuto: al di fuori di ogni possibilità di vedere i bisogni degli altri e di volerli soddisfare. Per questo i miei fratelli hanno rifiutato la sua officina, perché è insopportabile stare con uno che pretende da te quello che lui ha stabilito. Mio padre calpesta le persone senza accorgersene, nega loro quello che desiderano, è infallibile in questo, coglie esattamente quello che deve negare. È notte: anche mia madre è come la ricordavo: incapace di essere aggressiva, maestra nell’essere frustrante, forse perché è così facilmente delusa dagli altri. Insomma, mi dà sempre l’impressione di essere stata una frana rispetto alle sue aspettative e che comunque non drammatizzerà la cosa tanto ce n’è ancora per poco. Le ho detto “Papà non vuole conoscere Simone per riguardo a Raffaele che intanto si sposa”. Dice lei “Non sai essere diplomatica: ci vuole un’occasione qualsiasi, un incontro casuale che tolga papà dall’imbarazzo: se Simone viene a casa è troppo ufficiale”. Dico io “Ma mamma, sono nove anni che stiamo insieme, vale la pena superare un po’ di imbarazzo: per me è assurdo andare su è giù lasciando Simone in macchina ogni volta”. E lei “Ma io non sapevo niente di questo traffico su e giù, credevo che stessi qui un paio di giorni e poi te ne andassi con lui. Insomma, è riuscita a concludere che si aspettava una mia visita più breve. Me ne sono andata da Simone che era ad aspettarmi sulla piazza, ma certo che l’incantesimo in casa è rotto. Non riesco a mantenerlo più a lungo di quando, da piccola, tornavo a casa dopo aver fatto la comunione. Se una donna vive anni e anni, quaranta e più come lei, con un uomo, è impossibile ragionarci. A volte ho vagheggiato di ritrovarla dopo la morte di mio padre, ma è assurdo. Poi non sta mai ferma quando si parla: traffica in cucina, sposta delle cose, spolvera, fa il letto girandoci attorno velocemente, lava qualcosa in bagno. Così l’ho vista nel sogno detto di Lenin. Fa dei lunghi monologhi su cose che non la riguardano, anche un film o una notizia letta sul giornale, non annette particolare importanza a quello che ha a che vedere con i figli. Capisce che non c’è da aspettarsi niente da loro se non cose di riflesso, belle o brutte, e comunque non all’altezza dei suoi sogni di madre. Però è come se volesse nasconderci tutto questo, o farlo trapelare ogni tanto per punire un po’ chi avanza delle critiche o pretende qualcosa. Eppure il suo mondo sono stati i cinque figli, e il marito era piuttosto un essere da capire, da prendere per il suo verso che da intrattenercisi. Essendo tutta dedicata alla famiglia e così sottilmente e inesorabilmente delusa da essa, mia madre ha lasciato nelle figlie un desiderio molto forte di riscatto ai suoi occhi. Io, per fortuna, le sono sempre apparsa altezzosa e più incline verso il padre che verso di lei, forse perché, dice, avevo capito che era ” il capo della famiglia “. Avevo portato con me il diario dai tredici ai quindici anni, probabilmente per Simone ma una sera che eravamo nel discorso gliel’ho detto e ho immaginato che le sarebbe interessato, le ho citato qualche passo. Ma al momento di darglielo, si è schermita vivacemente: aveva da fare, per carità! E non me l’ha più chiesto. Per fortuna che è sempre stato così e non sono rimasta invischiata dal bisogno di farla contenta, per esempio, avendo più figli, tanto non è contenta lo stesso né con Lucia né con Nicola che he hanno tre per uno: si aspettava di meglio da loro, ma cosa? Forse una carriera brillante, un buon stipendio, un bel marito, studi e divertimenti… Ma, non so, non so immaginare, non l’ho mai immaginato. Comunque è così: non si può comunicare che fuori dalla famiglia e chi vuole la verità deve abbandonarla.

 

3 nov. Sono in campagna: mi sento così felice in mezzo alla natura, mi sembra che finalmente sono dove mi piace stare, tra l’erba, le foglie, gli alberi, con la terra morbida sotto i piedi. Mi viene un gran senso di pace e il pensiero che potrò fare quella corsa che ho sempre rimandato. Così Simone è così, che ci siamo accettati integralmente l’un l’altro, però lui è ancorato a me mentre io non sono ancorata a nessuno perché ho sperimentato la risonanza.
In principio era la risonanza di Sara in me di me in Sara.
4 nov. Santa Carla vergine e martire. Come avevo promesso alle suore del collegio sono diventata santa vergine e martire, e ora voglio entrare nel paradiso.
Sono a Siena: è una mattina limpida e Simone fa la doccia. Abbiamo parlato e gli ho detto che anche lui mi ha adoprata perché la mia coscienza era senza sbocco. L’unico sbocco restava il suo. Infatti mi è sempre suonato falso quando affermava di essere attaccato a me per il richiamo erotico. Non ha riso quando gli ho detto che ero stata santa vergine e martire, ma avevo perso di vista il paradiso, cioè la realizzazione che avrebbe dato un senso all’autenticità salvaguardata.
5 nov. E’ evidente che non mi sono amalgamata mai in nessun gergo né ambiente. Sono sempre la più silenziosa, per un intero pasto non apro bocca, sono tranquillamente a disagio. Se non hai complicità con gli altri non troverai mai niente da dire, oppure quello che dirai sarà un niente. Mi sono sempre chiesta perché quella ragazza così artefatta e balorda (ce n’è sempre una almeno in ogni occasione) possa dire, ascoltata, tante stupidaggini. Perché accetta l’indulgenza degli altri e ne solletica l’orgoglio continuamente. Io mi sento di un’ingenuità sconcertante, infatti vorrei rivelarmi agli altri, ma non so essere me stessa che nel silenzio.
7 nov. Sono in treno d Firenze a Milano. La mamma mi ha accompagnato alla stazione. Stamani le ho detto che lei deve avere le sue opinioni, non modificarle per giustificare il babbo. Ha avuto piacere a conoscere Simone? Dunque, cosa le è venuto in mente di trovare tanti argomenti assurdi per convincersi che papà ha ragione a non volerlo conoscere! Io non ci penso neanche a volermi immedesimare con Simone, non siamo la stessa persona, così mantengo il mio punto di vista sia o no in contrasto con il suo. A un certo punto le è uscito fuori che noi dobbiamo rispettare il babbo. Ecco la sua paura, paura che si abbatta il mito e tutto vada perduto. E’ il mito che lei ha di suo padre. Il nonno era un uomo molto distinto, sua madre era una contessa, non so se dipende da quello, comunque le i aveva sposato un sensale di grano perché la sua famiglia era decaduta. Ho delle lettere del nonno indirizzate in collegio “Alla Giovanetta C.L.”, poi altre frasi stereotipe (allora, poverino, era in ospedale con un cancro): aveva un misto di ufficialità e di modi toscani un po’ grevi/ Per esempio, ricordo che una volta ci lasciò allibite, me e Lucia bambine, perché durante una passeggiata ci chiese “Dov’è un pisciatoio?”. Io non sapevo quella parola che mi suonò molto volgare. Da piccola, l’estate aridavo con i genitori e Lucia a Genova: la nonna era morta (la matrigna di mia madre), ma c’erano tantissimi zii, circa quindici. La mattina mio nonno girava per la casa in pigiama, paglietta e canna da passeggio e svegliava i dormiglioni. Ricordo di avergli visto i genitali attraverso l’apertura dei pantaloni, qualcosa di ciondolante e strano, riuscivo a distinguerli anche abbastanza bene.
La mamma stamani mi ha rinfacciato delle cose, era proprio eccitata, l’ho sentita che parlava da sola, anch’io ero eccitata, mi ha detto “Permalosa”, come al solito, che lei è altruista e io no, che ha sempre pensato agli altri e che si sente superiore in tante cose anche dal babbo. Però non ha mancato di farmi notare quanto lui è intelligente, anzi intelligentissimo. Prima mi aggrediva, poi diceva che le facevo perdere tempo e doveva pulire la casa, ha sfogato un po’ di risentimento verso di me, e alla fine era più sollevata. L’ho lasciata sola e me ne sono andata a piedi per Firenze, cosa che mi piace moltissimo. Non ho più l’oppressione dalla città, ho superato l’astio che mi provocava, mi accorgo quanto è bella e come è conveniente comprarci qualcosa: guanti, scarpe, pullover. Al ritorno avevo questo diversivo degli acquisti da spartire con mia madre. Mi vede fare la stessa cosa che fa lei: andare in centro, scoprire qualche stupidaggine nei negozi, e il buon umore al ritorno. Abbiamo riso insieme, mi ha parlato ancora del suo passato, certi episodi li ripete tante volte nel tempo, però non la lasciavo proprio perdersi là dentro, riportavo a noi due. L’interessamento reciproco è la chiave per comunicare: se lei mi parla troppo di altro mi sento trascurata, ascolto di malavoglia. A un tratto mi è venuto da pensare “Cosa diavolo ho in comune con lei? Cosa potremmo mai scambiarci?”. Ma mentre pensavo così mi sentivo a terra, molto immatura e anche frettolosa. Certo, avevo immaginato di fare breccia nella sua scorza istantaneamente, l’avevo tanto sognato… Mia madre mi vede una potenzialmente prepotente e si difende, io le avevo dato quest’immagine per rassicurarla, in realtà le rivelavo come lei, così impotente e occupata a autoingannarsi, mi facesse paura.
Ho parlato anche con Adolfo. Ho avuto l’impressione di averlo fatto troppo, lui interveniva così poco, ma volevo rompere la riservatezza fra noi. Mia madre dice che mio fratello è un tipo piemontese come lei e che io invece sono fiorentina come mio padre, cioè un po’ parolaia e collerica. Simone mi piace sempre quando è con le persone: non strafà, non è sovrabbondante, ha dolcezza, ma certo non si scopre veramente. Una volta mi ha detto che quando ha conosciuto me, e lui era in piena crisi, ha capito che poteva smettere di fare l’arrampicatore, che poteva liberarsi dell’ossessione di riuscire nella società. Gli rimane molto grosso comunque il problema economico e il senso della riuscita di fronte a se stesso. Però mi ha sollevata quando ha risposto (io gli dicevo che l’artista fa l’opera perché non crede all’autenticità nei rapporti umani) che l’opera non è liberatoria . L’ha detto proprio dal cuore.
Parlo al telefono con Ester. Mi informa che stava conversando con Giulio T., che è un artista cosi straordinario. Io ribatto “Non mi fido di te”, e altre cose. Lei rimane calma, mi sembra un po’ faccia tosta come Vanda, ribadisce che è in gamba e come è bello stare con lui. Io incalzo “Hai una faccia come quella fotografia sul catalogo”.
In effetti mi aveva colpito sfarevolmente l’espressione che aveva Ester nella foto di una rivista. So che sta per aprire una mostra e tutto l’insieme mi ha fatto un’impressione molto brutta.
8 nov. Sono arrivata a Milano ieri sera. Che tristezza! Nebbia, grigio, solitudine. Oggi è venuta Sara: era triste anche lei perché ha perso la speranza nel suo amico. Pensavo che sarebbe stata qui tutto il pomeriggio, invece all’improvviso se ne è andata da Agata. Dopo la prima sorpresa, poco più di un mese fa, di un rapporto tra loro più intenso di quello tra me e Sara, adesso mi sento liberata dall’essere la preferita i suoi noblesse oblige. Ancora ci ricasco se mi distraggo, per me è una sensazione così nuova non vedere più lontano delle altre. Ritrovo la sicurezza appena mi succede, ma la sicurezza di prima non mi serve, quella nuova è come un uccellino senza penne che non sa staccarsi dal nido, non sa volare tra gli alberi. Ma ogni mattina è più robusto e cresce a vista d’occhio. Di nuovo penso che, se papà morisse, essendo io divorziata mia madre verrebbe ad abitare con me, un bel privilegio! Però non vorrei che lui morisse, ma smettesse di lavorare: chissà chi è se non ha gli orari, le soddisfazioni, le preoccupazioni, la meta e la soluzione di sé nel lavoro. Mi piacerebbe godermeli un po’, a questo punto il rapporto coti loro non è più pericoloso. Mia madre è orgogliosa del fatto che non mi lascio fregare, secondo lei. In un treno affollatissimo sono salita per prima e ho trovato posto. Stasera c’è il gruppo, l’avevo quasi dimenticato. Un uomo non può liberare una donna. Mi chiedo se andare in Toscana da quegli amici con cui non scambio niente, solo per il riposo o per la trattativa della campagna, sia disonesto. Certo vorrei riuscire a comunicare con loro oppure non farmi più vedere.
1973
1 nov. Sara mi chiede “Chi è stata tua madre? Io non ho difficoltà a dire che sei stata tu”. Anche a per me è stata lei perché prima avevo il vuoto, oppure amiche come Ester che era solo materna. Dovevo risalire a suor Caterina per ritrovare la madre. Non avevo capito che la mia difficoltà con le donne deriva dal fatto che con me si inferiorizzano, così mi sono buttata nel femminismo e si sono inferiorizzate ancora di più. L’idea di cambiare le cose sembra esimere dal capirle. Per me cambiare le cose voleva solo dire non accettare l’incomunicabilità. Provocare incontri sul tema del disagio. Simone mi ha chiesto coni mai lui si sente completamente soddisfatto da me mentre non altrettanto pare sia io. Ho risposto che una delle ragioni è che lui ha dieci anni di più così mi costringe a affrontare sensazioni, esperienze, senso della vita propri di un’età diversa dalla mia, e forse questo mi immalinconisce un po’. E’ rimasto male e ha esclamato “Mollami, per carità”, ma io non voglio mollarlo, solo tirare fuori questo problema. Poi ha dato un po’ di matto dichiarando che può far ricorso ai privilegi del maschio e prendersi una donna molto più giovane di me, anzi può comprarla, ecc. Adesso che scrivo sta leggendo “New Yorker” un po’ sostenuto, ma sono sicura che riflette. Con Simone sono brusca o violenta, può sopportarlo, così mi rivelo completamente e divento cosciente dei miei contenuti. Comunque con lui ho un precedente: mio padre; mia madre no, la vedevo troppo fragile. A suor Caterina raccontavo ciò che non andava di me, le mie vittorie e sconfitte, ma non avrei mai potuto aggredirla, cantargliele.
Oggi è importantissimo quello che ho capito: siccome ero più grande di mia sorella lei mi sentiva sempre più avanti, così covava ostilità per me. Io non potevo rendermi conto di quella ostilità, così pensavo di avere fatto qualcosa che non andasse, per esempio non essere stata abbastanza attenta, delicata, buona consigliera. Tanto più che lei, essendo sempre più bambina di me, mi sembrava più indifesa, più ingenua. La mia maggiore esperienza mi si presentava anche come una colpa. Mentre la sorella maggiore disturba l’altra sorella con la sua superiorità, la sorella minore disturba la maggiore facendola sentire in colpa. In colpa per essere più avanti. Questo è il senso di quel pezzo mio che sarà riporta alla fine del suo libro dove dico che devo imparare da lei, che lei è più autentica e io compromessa nel mondo maschile. Ugualmente, rispetto a Lucia a sedici anni, io a diciotto e mezzo mi sentivo ahimè più temeraria, più capace, più lontana dalla zona “innocente” dell’infanzia. Ma allora il recupero della parità impostato dalla minore è una castrazione della maggiore.
Ieri Sara mi parlava come discolpandomi della mia superiorità che è un dato di fatto molto comprensibile: tra l’altro sono, appunto, maggiore di età. Dunque era questo che cercavo: di liberarmi dal senso di colpa dovuto all’essere stata in gamba rispetto a altre donne più passive, pigre, impaurite, o semplicemente più giovani. La minore subisce la maggiore, ma cerca di smentirla per liberarsene. Così io sono stata guardata con sospetto da Lucia per tutto quello che ho fatto. Tacitamente sottintendeva le interpretazioni peggiori. Ho dovuto ignorarla, fregarmene; ma il suo rimprovero pesava su di me. Quando da ragazzina mi appassionavo di religione, e in casa litigavo con il padre senza cedere ma scatenando così il putiferio, quando cominciavo a truccarmi, a uscire con i ragazzi, a fare discussioni con loro, a avere rapporti sessuali, a andarmene di casa, a convivere con Raffaele, quando sono rimasta incinta, quando ho voluto sposarmi in comune, quando ho trovato rispondenza con gli artisti, quando mi sono separata da Raffaele, quando mi sono messa con Simone, quando ho detto che il femminismo non c’entra con il marxismo, quando ho affermato che la clitoride è nevrotica, ma più autonoma, ecc., ogni sbocco mi veniva contestato dalla minore che seminava la mia strada di dubbi. Così per me è stato durissimo quando ho avvertito che anche Sara dubitava di me, ma finalmente ho cominciato a prendere coscienza del problema, mentre prima, siccome avevo così battagliato con l’uomo, credevo che fosse lui il mio principale problema. Avendo ammesso quanta insicurezza e tortura mi aveva inflitto Lucia, e l’anno scorso Sara, ho cominciato a liberarmene. Mentre Ester, e prima di lei Marion, si erano fermate alla formulazione di accuse con cui sembrava loro di giustificarsi della subita interiorizzazione, quasi fosse un puro dato in perdita e non invece un’implicita ritorsione. Sara come me voleva andare in fondo al nostro rapporto per vedere gli inganni in cui personalmente si è portati a cadere coinvolgendo l’altra persona. Adesso capisce perché sono stata più con soddisfazione con gli uomini che con le donne, perché gli uomini possono sentirsi più alla pari se tu non ti poni in modo subordinato, possono avere problemi più simili nel senso dell’intraprendenza, dell’esperienza del conoscere, dell’elaborare. Adesso capisce anche che era inevitabile che le altre mi sentissero superiore perché veramente ero un po’ particolare come donna – un misto di affermazione di me e di rinuncia che mi arricchiva della spiritualità di entrambe le condizioni – e che io fossi una che stimolava le altre con aggressività, ma anche le accettava con dolcezza. Riccardo dice che ero paternalista con le sorelle, e Sara osserva che c’era troppa differenza di età e di esperienza perché potessi non esserlo.
3 nov. In campagna ho incontrato un’amica del tempo di guerra, quando ero sfollata lì. Ho provato verso di lei le stesse reazioni di allora: un leggero disagio per una sua durezza sotto l’aspetto cordiale. Si ricorda che quando i tedeschi avevano occupato il paese, noi due stavamo “in finestra” e io ho esclamato “Mi sento come un bussolotto”. Rideva ancora ricordandoselo proprio perché non capiva il motivo di quella frase; io stessa non ho idea di quello che intendevo, però mi è balenato il bisogno che avevo di esprimermi e il fatto che nelle formulazioni banali non mi ritrovavo. Però ho sofferto a lungo per questa originalità un po’ sballata.
4 nov. Papà al telefono mi fa gli auguri e dice ridendo “Santa Carla” (invece è San Carlo Borromeo). Rispondo sempre ridendo “Sei sicuro?”, ma lui m’interrompe “Perché? Sei una brava ragazza”. Mi è piaciuta la sua voce allegra e piena di energia, anche quella di mia madre era serena; lei si è subito accorta che avevo il raffreddore, che bella cosa la madre con il suo orecchio sensibile. Mi hanno promesso di venire sabato a Turicchi, devo dirgli di coprirsi bene, lì è freddo, non sì scherza. Sono rientrata a Roma per vedere Sara oggi, ma anche perché non avevo abbastanza indumenti caldi. Non si fa viva ancora, ma sono tranquilla, semmai ci vediamo domani; e poi sono interiormente felice.
E’ venuta e abbiamo parlato tutto il pomeriggio. Come prevedevo ha già incontrato Claudius e come prevedevo anche lei ha avuto l’impressione che a lui piaccia di più parlare che tutto il resto. Le sembra un tipo onesto come suo marito, però molto stimolante mentalmente. Quando Sara gli ha detto di aver adoprato nel suo libro tutta una terminologia presa da me, lui ha risposto che, siccome esprimersi è così difficile, si ricorre a chi sa scrivere bene facilitato dalla cultura di origine, e io scrivo così perché sono fiorentina, ho fatto gli studi classici, ecc. Dunque non vuole riconoscermi: questa piccola osservazione mi ha aperto tutto un orizzonte, mi ha dato quella conferma che lui ha sempre smentito. Adesso che Sara si è installata definitivamente al mio posto io sono qui: non mi è dispiaciuto, anzi mi ha fatto piacere. Oggi mi diceva ancora che si è trovata bene solo con me in Rivolta e per un periodo con Agata che era mia amica, le altre erano capitate lì casualmente e sono rimaste indietro. Mi ha sorpreso che parlasse spregiudicatamente di questi problemi del gruppo con il suo attuale ragazzo, nonostante tutto io non ne avrei parlato. Certo, così rimangono arrières pensèes, zone misteriose, cose non dette, ma come si fa a fidarsi.
Via via che Sara mi racconta dei suoi incontri mi chiedo se ricomincerei a vedere quegli stessi amici; mi sembra così inconcludente quello che ho avuto con loro, solo uno scalino, su cui lei ha poi fatto il primo passo. Io ho consumato tutte le mie energie in questo scalino. Ma non ricomincerei: quella fase c’è stata, l’ho voluta fino in fondo, non posso tornare indietro, posso solo vivere l’oggi, diverso da quello di Sara. Devo afferrare il mio oggi, diverso da quello di Sara. Devo afferrare il mio oggi, questa calma, questa voglia di niente che già non abbia alla portata. Invece ho voluto dirle qual è stato l’impegno maggiore della mia vita: quello di passare dalla frase “Mi sento come un bussolotto”, a una vera espressione e formulazione di me, dei miei problemi, delle mie sensazioni. Quella che gli psicologi chiamano “verbalizzazione”. Pare che i suicidi, spinti fondamentalmente da incapacità a comunicare (e in giugno leggevo quel libro sugli adolescenti perché avevo il bisogno assoluto di ricordarmi la paura di non riuscire a farlo), siano nell’impossibilità di verbalizzare le loro esperienze interiori. Allora io avevo l’impressione di avere dato alle altre, a Sara, il meglio di me, proprio questa verbalizzazione, che loro avevano accolto senza rendersi conto di che cosa gli era capitato nelle mani. L’argomento probante è che quasi tutte da Rivolta hanno preso forza per fare qualcosa d’altro, lavorare, cercare rapporti, erotismo, contatti, viaggiare, ecc., mentre io ho solo strappato la coscienza di non essere consapevole. Dicevo a Sara che, proprio perché l’ho provato, non voglio che l’uomo si senta colpevole a causa mia: solo nel sesso lo è, in tutta quella sua ostinazione a enfatizzare la vagina a e misurare la donna su quello. Ma nel resto non voglio. Per esempio, Simone, oltre a lavorare anche per me, non deve avere il senso di essere meno integro di me. Porse lo è, ma solo perché mi risparmai l’aut-aut della competizione e della sopravvivenza.
L’anno scorso Sara era entusiasta di tutte le donne e con ciascuna sembrava potersi aprire e che l’altra avrebbe fatto altrettanto. Oggi dice “Sei tu e basta”. Suppongo che farà così anche con gli uomini, passata questa entusiasmante fase del primo contatto e della scoperta di tutte le pontenzialità.
5 nov. Come potevo capire che si trattava di un rapporto superiore-inferiore con le altre donne se non conoscevo quello alla pari. Mi rendo conto che Sara è la prima donna cosciente che conosco, fa una bella differenza! Prima avevo sempre l’impressione di essere un battistrada, adesso non più: sento che è autonoma, inarrestabile come me, e se oggi ho meno curiosità di lei (del settore dove lei indaga), posso benissimo rivedermi in lei alla sua età. Stamani sono scesa con Simone e poi siamo rimasti a chiacchierare in macchina a Piazza di Spagna. Una cosa che lo blocca è la paura che io vada con altri. Mi sembra che lui non abbia tanta voglia di andare con altre. Oppure si frena inconsciamente per paura delle reazioni a catena. Io ho la sensazione che gli uomini siano spariti dal mio orizzonte, che strano, ma mi piace vivere questa oasi di pace con Simone, mi meraviglio di me stessa, ma è così. Adesso sono sola con lui e con Sara.
Da ragazzina pensavo con entusiasmo al monastero e al mondo, due realtà contrastanti, come intuire che non sarei potuta restare fissa in nessuno dei due posti, che avrei sempre avuto il rimbalzo. Ora sto rimbalzando verso il monastero. Turicchi, e anche la vita a due se mi viene sempre in mente la fine di “Un uomo senza qualità” dove c’è una specie di vita estatica tra un uomo e una donna (fratelli gemelli). Ancora temo questa esperienza, Simone dice di no, che è pieno di desiderio di farla, e già è cominciata.
Mi ha telefonato Piera: è qui da sabato, parte oggi, è stata da Ester. Sembrava un po’ giustificarsi “La prossima volta starò con te, è Ester che mi ha voluta, non potevo dividermi tra voi due”. Le ho risposto che probabilmente deve verificare anche il suo rapporto con Ester. Piera ha bisogno di chi le dimostra affetto, considerazione, premura un po’ coccolanti, però poi le rimane il rimpianto per un altro tipo di rapporto, che continua a rimandare. Quello che mi piace di Sara è il suo sfuggire cose del genere: per lei io sono proprio il massimo anche di calore. Ho il mio tipo di calore dello sguardo, del capire, dello scambiare attimi e attimi. Con Piera sto bene, ci siamo viste; ma non mi sento veramente ricca, imprevista come con Sara. Per esempio, se dico qualcosa di saggio devo sforzarmi perché non venga interpretato come disfattista o rinunciatario.
7 nov. Lascio andare Simone a letto, io invece scrivo. Ho fatto la prefazione all’edizione spagnola dei miei libretti: ormai mi sembra così superato quel modo “ragionato” e “sintetico” di scrivere. Non sono entusiasta della prefazione, mi ricorda stesure un po’ stentate. In fondo io venivo dalla critica d’arte dove mi ero ridotta all’osso. Ho battuto la testa molto forte e mi è venuto un bozzo. Un tempo un fatto così non lo collegavo veramente a me: era un bozzo nella testa come un’acciaccatura nel cappello, quasi, mentre adesso faccio così tutt’uno che sento un bozzo nell’anima, nel modo di riflettere. Da giovane uno si sente oltre il suo corpo, probabilmente da vecchi si è solo corpo.
Ho parlato con Federica al telefono: vorrebbe fare tradurre i miei libri in francese. Oh bella! Io invece provo il bisogno di mostrarmi più come sono, tirare fuori lettere, diario, poesie… Simone dice che Sara mi ha preso tutto, che io non mi rendo conto. L’altra sera era di pessimo umore quando è rientrato a cena, tardi perché gli avevo chiesto di rientrare tardi, e mi ha trovato con Sara. Ha cominciato dicendo di sentirsi “escluso” da noi, ma eravamo così stanche e lui così prevenuto che non c’era modo di affrontare la questione. Convincerlo che non era vero spettava a me, era affare suo. Però mi ha allarmata meno del solito, non è diventato un dramma né una lunga seduta. A letto l’ho abbracciato tranquillamente e lui non ha fatto resistenza. Questi sono i vantaggi dello stare insieme. Comunque tra poco Simone andrà a Pietrasanta e poi a Milano. Che ne farò di questa vacanza?
1974
nov. L’intelligenza è soltanto, apertura. Oggi Felicita diceva di non riuscire a adoprare il telefono per conversare perché non vede il viso della persona, la sua espressione mimica. Le ho risposto che a me al telefono avviene un potenziamento dell’udito come ai ciechi, sono molto più sensibile al suono della voce, ne colgo tutte le sfumature. Ho fatto un’osservazione più intelligente di Felicita solo perché lei aveva giustificato una sua chiusura. Quando Piera mi ha chiamato dall’aeroporto, come sempre mi ha incantato la sua coraggiosa sprovvedutezza. Perché io avevo provato così presto il bisogno di liberarmene e, nel frattempo, di mostrarmi sicura, decisa, autonoma più di quanto intimamente sentissi di essere? Perché poi mi è sempre apparsa una dote di autenticità insostituibile proprio quella palese sprovvedutezza? A me è mancata la madre che mi lasciasse essere quella che ero, una bambina, così sono caduta sotto gli imperativi di mio padre che mi voleva subito o soggetta a lui o adulta sul banco di prova.
nov. Sono a passeggio con un’amica, è molto carina, con la frangetta, occhi luminosi e un bel sorriso, solo il naso è adunco e io penso come sarebbe bello se si facesse una plastica e togliesse via quella gobba. Guardo i nostri piedi nei sandali e vedo i suoi di dimensione normale, i miei invece hanno le dita sottilissime, graziosissime, però sono pieni di calli molto evidenti e le unghie, lunghe, nei diti più piccoli girano di lato con effetto un po’ mostruoso.
A Turicchi Questo posto passa per il mio cuore qui ho ritrovato ciò che avevo perduto.
5nov.
Mi è impossibile
perdermi eppure
rischio moltissimo di perdermi
Ho almeno due
anime una votata al distacco
una avida dietro i vetri
accarezza i suoi beni
con lo sguardo.
6 nov. Faccio l’amore con una ragazza, prendo l’iniziativa, sono arrivata al suo sesso, tutto è molto eccitante e naturale. Penso “E’ questo, dunque, ho spiccato il salto”. Provo un moto di liberazione.
Ho a che fare con delle inglesi, c’è un dissenso fra noi perché non sopporto la loro aria colonizzatrice. Chiedo se parlano il francese, non lo parlano, vanno in giro per il mondo solo con l’inglese, trovo la cosa detestabile. Una dice di tenere molto ai valori essenziali, la luce per esempio. Sto per rispondere “La luce è meglio qui che in Inghilterra, è meglio in Grecia che qui”, ma non so in che lingua dirlo. Sento di essermi pronunciata in modo molto equilibrato e per niente parziale, però sono frustrata di non avere una lingua in comune per potermi esprimere.
E’ Felicita che ha le dita sottili, che parlava della luce del pomeriggio ieri sera, Felicita sfuggente, con cui mi è difficile fare cadere gli ostacoli, Felicita rifugiata in David dopo la crisi con Valeria (come io e Simone, però ne sono uscita, ho subito, ho accettato di soffrire).
7 nov.
Non ho il tempo
dello scorrere
io vorrei ma forse
neppure mi piace
ho il tempo del prendere
e lasciare
della continua
separazione
Sono di nuovo a casa di mia madre. Faccio la figlia unica in ritardo. Giriamo per i negozi, la mamma ha comprato le scarpe e una camicetta. Da giovane era Lucia che l’accompagnava perché aveva la passione per 5 vestire e un gusto simile al suo, adesso lo sto facendo io, forse è l’unico modo per trovare qualcosa in comune con mia madre. Mi sono sentita strana in famiglia questa volta, un po’ come dovevo sentirmi da bambina quando decidevo di “essere buona”. Un girare a vuoto in un senso di pena e di inutilità con la speranza di fare contenti i “genitori-bambini”. Come allora mi sento estranea e vorrei dirglielo, sarebbe la prova che non è vero. Vedo con smarrimento la vecchiaia in loro, le manie, la perdita della forza, dell’interesse, e l’accanimento con cui cercano di illudersi che tutto è salvo, uguale a prima. Mia madre mi esaspera: ormai la accetto così, ma vederla in azione tutto il giorno è uno spettacolo assurdo. Poi papà torna a casa, la sgrida perché il marsala nel petto di pollo non è di buona qualità, si arrabbia perché i pezzi lavati della moka sono stati messi uno sull’altro e non uno accanto all’altro. E lei resta lì, come una bambina con il quaderno macchiato d’inchiostro, sotto lo sguardo del preside. Allora io involontariamente faccio il solito fumetto che mio padre muore, e la mamma resta padrona di tutto, va a prelevare i soldi dalla banca, finalmente sa a quanto ammontano, e esce di casa e di città come le pare. Possiamo cenare insieme al ristorante e essere in ritardo su tutti gli orari che segue da cinquant’anni. Faccio il solito fumetto che da vecchia sia il tempo per partecipare, sia pure minimamente, a una vita senza terrorismi, umiliazioni e spappolamento del cervello, reclusa in casa da impazzire con un vecchio prepotente. E io lì pronta a aprirle la strada verso una vedovanza liberatoria. Eppure sono più figlia di mio padre che sua; in lui odio una violenza che posso avere anch’io, per questo mi sento in qualche modo colpevole. Lei invece è una vittima senza ribellione, perché prova pietà per l’opressore.
8 nov. Eppure stamani, quando Simone, a letto, mi ha messo una mano dietro la nuca per tirarmi a sé, ho riconosciuto le dita dure di mio padre – mi pareva di avvertire la presa del suo indice mozzato – e perfino quanto ha cominciato a carezzarmi avevo sempre l’impressione della mano forte di mio padre e del suo dito mozzato. Contemporaneamente, se pensavo a lui, avevo un senso di fastidio e di insopportabilità per la sua persona.
Ho saputo che Sara ha scritto a Gemma “Sto bene qui”, ho letto tre pagine di Groddek, Valeria mi ha chiesto se ho qualcosa da farle leggere, e sono sprofondata nel dubbio di me. Mi vedo risucchiata alla superficie, compiacente, ragionevole. Tremo dentro di me, mi sento confusa, perdo ogni punto fermo, precipito. Eppure, non so dove, la cosa è prevista , e non me ne fa neppure granché. Ho perso il noblesse oblige: che succeda quello che deve succedere, non ho altro desiderio. Non ho più la pretesa di essere “la migliore”. Sara mi ha superata, sorpassata, stracciata, seminata. La mia coscienza lo sa, anche se spera di recuperare e magari di sentirsi ancora sulla cresta dell’onda, ma avanzando delle pretese non può che prepararsi all’angoscia.
9 nov. Sono eccitatissima per l’incontro con Valeria, con una libera, aggressiva, esplicita, ragionante che, per fortuna, non ce l’ha con me.
Ho dato a Valeria le mie poesie, vecchie e recenti fino a un anno fa. Vorrei averne una copia e leggerle mentre intuisco che lei le sta leggendo. Per parare i colpi, per godere di quello di cui forse sta godendo, per essere una spettatrice di me stessa insieme a lei. Vediamo se questa volta faccio centro, se un’altra mi diventa interlocutrice, se mi dice qualcosa per cui è valso la pena non dico scrivere, ma fare leggere: quei fogli non sono più su qualche scaffale a prendere polvere e attendere un momento propizio che non viene mai. A Valeria interessa il contenuto, lo cercherà, lo sviscererà. E non ha manie letterarie. Sono fiduciosa. Se sblocco con gli scritti, ritrovo lo sprint, l’entusiasmo con gli altri.
Vorrei
scrivere e scrivere
adesso che qualcuno mi legge
10 nov. Leggo una frase “propiziazione masochistica in forma di tecniche femminili di seduzione del persecutore”, ossia “autodenigrazione”. Mi ha subito richiamato il mio atteggiamento con le donne, nel gruppo. Quando Germana mi ha detto di avere sofferto
nel tentativo di reprimere in sé quelle sensazioni che avevo definito vaginali, mi sono sentita tremendamente in colpa, e ho avvertito un’immediata depressione. Che però non è venuta avanti, e al suo posto è subentrato quel senso di vittoria interiore di quando, da bambina, arrivata sull’orlo delle lacrime, in base a un’esperienza precedente pensavo ” Adesso scoppio a piangere”, e proprio per il fatto di essermene accorta in tempo, e di averne accettato l’eventualità, non succede va.
L’ansia di realizzarmi come espressione di me mi ha sempre perseguitata e non capivo, letteralmente, con che ragione stesse al mondo chi non l’aveva. Non capivo le donne. Istintivamente tendevo a scalzarle dal silenzio, a mostrare loro la via dell’espressione. Ma non arrivavo a contagiarle, a risvegliarle, allora la loro calma, la loro imperturbabilità mi sopraffacevano. Dice Paula “Agire mi avrebbe snaturato”, e anche “Ho sempre cercato una via d’uscita, ma non avevo ambizioni e pensavo “Se capisco perché la gente scrive, scrivo anch’io”. E conclude “Tu sei la prima donna che…”. Lei non aspirava ad essere la prima donna e aspettava che comparisse. Io sapevo che non avrei incontrato una prima donna, dovevo essere io quella. Dice Paula “Non potevo inventarmi la strada ex-novo, e anche crederci e percorrerla”. Che io l’abbia fatto può suscitare la sua considerazione, ma certo è felice di non avere dovuto compiere una fatica in più. Non dà valore a queste cose, però dalla sua inerzia fiduciosa sta risalendo a se stessa. Senza passare attraverso la disperazione che porta alla trascendenza? Le ho dato da leggere la mia poesia per lei. Non ha reagito affatto. Non mi ha chiesto di dirle il sogno che le avevo annunciato. Se non lo fa per difesa, si permette anche di essere distratta. Nella poesie dove c’era scritto “t’inseguo” ha letto “t’insegno”.
11 nov. Da sempre, ma soprattutto adesso che so del suo transfert per me, provo il bisogno di essere un po’ dispotica con Paula.
Mi ronza nella testa questa coppia di contrari ”trascendenza-immanenza”. Mentre parlavo con Paula, al di là dell’assurdo e gratuito di dirle “Per me tu sei la femminilità e la madre”, con conseguente imbarazzo come se fosse rimasta male, sparito poi nel resto della serata in cui mi sono sentita più accolta di prima, avvertivo che stavo toccando un punto essenziale. Sono tutta scombussolata. Matilde torna da Parigi e porta notizie e libri. Questo femminismo, questa cultura femminile non mi interessano. I libroni della Mitchell, e gli altri, scostanti, da cui non s’intravede che ideologia e cultura, cultura e ideologia in tutte le salse! Tutto falsificato, e ora diffuso, propagandato, riposto in sacchetti verdi chic nel gusto Fiorucci con la scritta “Edition des femmes”! E da questa tragica distorsione invitano, che dico, ricattano le femministe esibendo la necessità della psicanalisi “da Freud a Lacan”! Merda, soltanto merda!
12 nov. Alle 7 del mattino telefono a Roma a Tito che ha mal di gola, gli dò le istruzioni, sono in ansia per lui. Torno a letto, faccio l’amore con Simone, passo da una fantasia all’altro, da uomo a donna, alla fine ho l’orgasmo, sto subito meglio, tranquilla, mi addormento.
Tito è piccolo, ometto saggio e malaticcio, quasi grinzoso, vestito dalla testa ai piedi, lo amo tanto, glielo dico “Ti voglio tanto bene”, c’è un idillio tremendo fra noi, un legame dolcissimo, l’unica cosa che conta. Peccato non avergli portato le medicine per il mal di gola visto che sono venuta in città, era così semplice raggiungerlo. Poi mi prende l’angoscia che dovremmo lasciarci perché un giorno moriremo e spariremo nel buio, nel vuoto, lontani per sempre. Perché la gente fa i figli? Non pensa che prepara un terribile momento di distacco? Terribile per sé, ma soprattutto per il figlio abituato a contare sulla madre.
Dietro una parata una donna balbetta “Soffoco, soffoco” e si scuote tutta. Le getto appena un’occhiata e scappo via: è una che sta morendo, ha chiesto delle pillole perché intende praticare l’eutanasia, non ce la fa a vivere. Forse adesso è pentita, sente arrivare la morte e non la vuole più, chi può dirlo. Non sopporto di essere testimone di questo suo momento. Scappo e mi trovo in una bella casa grande e antica dove avevo abitato un tempo a via Verdi, ma non somiglia, adesso è abitata da altri. La moglie mi mostra tutto quanto, bellissime scaffalature fino al soffitto a capanna in legno scuro e ferro smaltato nella grande cucina, sembrano antiche, ma ai miei tempi non c’erano, e meccanismi moderni per aprire gli sportelli. Simone è troppo rudimentale nell’arredare la casa, ce l’ho un po’ con lui, guarda qui che ingegnosità e che bellezza! In uno stanzino incontriamo il marito, ma io fingo di non vederlo e volto le spalle.
In via Verdi è cominciata Rivolta Femminile a Milano, e rispetto à quello che mi diceva Matilde dell’organizzazione libraria e della lussuosità delle sedi francesi, ma soprattutto rispetto a queste donne colte di psicanalisi e sprezzanti verso il femminismo, ho rievocato la nostra modesta sede, sia di locali che di mezzi. Nel sogno vedevo le migliorie in via Verdi con ammirazione, ma anche avevo l’impressione di certo moderno rifatto sull’antico che lì per lì richiamava una vita calda e funzionante, poi ne avvertivo il trucco, la non-genuinità. La psicanalisi serve a un certo stadio, posteriore alla autocoscienza, ma non ha senso come indicazione di una strada. L’autocoscienza porta alla scoperta dell’inconscio, e quindi provoca l’interesse spontaneo per la psicanalisi. Perché dire che “il femminismo tradizionale o rinascente ha sempre brutalmente respinto la teoria freudiana in nome di una lotta contro il patriarcato?”. Questa “brutalità” è stata salutare se ha permesso di togliere i primi ostacoli alla messa in moto di un processo di liberazione la parola “brutalità” indica da parte di chi scrive un’identificazione emotiva con la teoria freudiana che non promette niente di buono. Comunque che altre donne ambiscano alla leadership nel femminismo mi provoca subito un’angoscia che mi avverte del ridestarsi della rivalità in me.
Riprendo la lettura de “Il linguaggio dell’Es” di Groddeck al punto dove l’avevo lasciata ieri. Un brano mi ha molto riconfortato e tolto dei complessi sulla giusta interpretazione, sulla competenza psicanalitica in senso stretto.
Paula è affascinata dal diario di Valeria: le ricorda quando era giovane e aveva senzazioni così nette, così reattive. Poi, piano piano subentra una purea, un marasma e tutto si confonde. Il mio diario ha ancor qualcosa di quella confusione mascherata. Non piacerà a Paula come quello di Valeria. Vorrei essere Valeria.
1975
5 nov. La coscienza è la nostra salvezza, di quella nessuno se ne può impadronire, mentre la sensibilità e persino l’autenticità non ci mettono a riparo dalle manipolazioni altrui. Cara Augusta, come saprai è stato ucciso Pasolini. Una morte orribile alla quale però credo che lui in qualche modo andasse incontro. Ne ho avuto un vero dolore. E ci ho riflettuto molto sopra. I possibili fratelli sono irraggiungibili nella loro solitudine. Diffidono di noi. Il nostro problema è accettare la solitudine, anche uscirne, vero? Che ognuna si esprima, non vedo altra via. E esprima se stessa non i valori, patrimonio del padre. Per questo ogni autocoscienza che esce è una smentita del privilegio, del verbo, cioè del Padre. Sento una leggera esaltazione nel dire questo. Poiché mi piace tenerlo in sordina, mentre però il mio cuore batte molto forte. Ho paura di essere travolta dal mio desiderio, ma so che la testimonianza ha bisogno di tempo.
Cara Matilde, sai dove mi è nata la proposta di mettere il tuo nome sul libretto di Piera? C’è una convergenza di motivi. Te li elenco. Giorni prima avevo cercato il tuo numero della ditta sulla guida del telefono e avevo letto Dumont dì Luca Dumont. Mi ero chiesta che parte avevi avuto nella Dumont. Quando ti vedevo così impegnata nell’impaginazione per Piera e per una collana a cura mia, mi chiedevo se non continuavi la situazione della Dumont di Luca Dumont. Ho provato il bisogno di provocare una chiarificazione proponendoti di mettere il tuo nome insieme al mio come curatrice dei libretti di Rivolta Femminile. Mi è piaciuta molto la tua sincerità nell’accettare. Ma mi sono subito accerta che la mia proposta non rispecchiava il mio convincimento. Era come se avessi voluto ripagarti del torto subito nella Dumont e evitare che questo torto si ripetesse in Rivolta, Però per evitare un torto, te ne ho fatto un altro: ti ho lusingata su qualcosa che non lo merita, e cioè su un lavoro di collaborazione. Sono stata tentata di dare un riconoscimento alla tua generosità. Ma nello stesso momento mi sono accorta che questo riconoscimento ti procrastinava di fatto la presa di coscienza che il tuo problema, come quello di ciascuna di noi, è di esprimersi, di affrontare questo punto come l’unico che meriti riconoscimento. Altrimenti si tratta di una gratificazione dettata dal timore di essere io l’unica beneficiaria dell’iniziativa dei libretti. Più volte mi hai detto che nessuno dubita del mio diritto di essere e apparire curatrice dei libretti, però in qualche modo sentivo che tu stessa potevi dubitarne.
Il mio nome a cura della collana degli “Scritti di Rivolta Femminile” mi pesa, così ho pensato di dividere il peso con Matilde, ma questo non ha fatto che complicare la questione poiché si accentua l’esclusione delle altre, e quindi la mia arbitrarietà. Dovrei avere il coraggio di togliere il mio nome, ma anche lì è come se mi sottraessi a quelle che lo vedono come il simbolo della continuità e di una situazione che le coinvolge. Insomma, per me è un conflitto, e mi sento colpevole verso Matilde per averla chiamata in causa troppo imprudentemente. Devo ancora capire bene perché mi pesa quel mio nome messo lì: forse che non mi accetto, oppure contribuisce a creare delle distanze fra me e le altre, e io non ne posso più di queste distanze? Forse è questo: che sento ancora in quel nome messo lì una specie di posizione ambita che mi tira in due direzioni: a spartirlo con altre, a rifiutarlo io stessa per negargli valore e smitizzarlo. In entrambi i casi sbaglio, mi perdo: ecco il perché del conflitto. Ogni volta eh credo di essere intervenuta in aiuto di un’altra mi accorgo di avere camuffato un mio problema. Appena pronuncio l’invito a Matilde ho capito che le mentivo: non aveva diritto a stare alla pari con me sui libretti perché non era stata per me quello che io ero stata per altre: non mi aveva permesso di tirare fuori miei scritti.
Cara Regina, mi commuove che tu cerchi di farmi un po’ dì spazio in quella cultura che, mi sono accorta, accoglierebbe ancora i miei servigi, ma non la mia esistenza e la coscienza che ho di questa esistenza. Ho sempre pensato che fosse importante più che mirare ai risultati non compromettere la situazione che permetteva alla coscienza di svilupparsi il più possibile liberamente.
Io mi trovo bene dove sono, questa semi clandestinità mi è molto congeniale e anche
questa fase di femminismo, se si vuole chiamare così. E’ un’esperienza che mi offre, non solo conferme su una specie di scommessa interiore che adesso sta avverando
si, ma anche una miriade di chiarimenti sulla realtà è gli esseri umani quale non avrei
avuto più vasta se avessi girato il mondo intero. E ho proprio il dubbio che tutti i
vantaggi che mi trovo a godere siano in diretta relazione con questo stato di disconoscimento di cui non posso dire che bene.
7 nov. In fondo la verità è questa: che quell’ “a cura di” ha un valore talmente particolare che non può essere condiviso con nessuna. E’ il succo della mia vita, non un’iniziativa editoriale. Ci tengo perché mi spetta, non perché mi dà prestigio. Non potrei accettarlo se non lo sentissi mio, parte di me.
Il modello di trascendenza per la donna non può essere che maschile, il Verbo del Padre, appunto, anche se è incarnato in una donna; il modello di liberazione non può che essere femminile anche se è incarnato in un uomo che, oppresso dalla Legge, cerca una realizzazione “diversa”. Ma non può formularla sotto pena di ritornare nell’ambito del Padre, può solo esprimersi come contraddizione vivente continuamente sottoposto alla tentazione di liberarsi di lui. Il “fratello” è solo, infatti si trova anche in opposizione alla donna che gli appare quella che storicamente è apparsa, piedistallo dei valori del Padre. Ecco perché sentivo in Pasolini un possibile alleato se riuscivo a forzare la sua solitudine. Ma forse allora ero troppo timorosa io stessa; oppure il suo dramma, in qualche modo a me sconosciuto, escludeva la possibilità della mia partecipazione.
Per lui la donna era l’altra, quella che è anche la mia antagonista, l’identità alienata: la donna del Padre. D’altra parte l’adesione di Pasolini al Pei è quasi retrospettivamente, un simbolo del suo desiderio, contraddittorio, di avere la memoria protetta dall’ombra e dall’accettazione dei Padri ideali con cui, attraverso la morte, aspirava a riconciliarsi, nel momento in cui si sottraeva alla loro presa, alla presenza fisica nella Storia.
Più vado a fondo, veramente a fondo più i dubbi si diradano e sempre più acquisto la certezza di essere giustificata. Le accuse, le autoaccuse sono la condizione per arrivare alla coscienza di questa remota giustificazione di sé. Perché mostrare interesse e compassione per l’altra vittima, cioè l’assassino, il ragazzo diciassettenne? Sono state delle donne a prendere questo atteggiamento: perché? Inconsciamente si identificano con-la rivolta di una prostituta? Ma come fanno a partecipare ai drammi di uno sconosciuto se non per negare all’assassinato il riconoscimento che gli spetta? Pasolini ci aveva parlato di sé, ecco perché possiamo avere delle reazioni personali, perché lo conoscevamo personalmente, ma un povero ragazzo muto, uguale per noi a milioni di altri perché prenderlo a pretesto mentre ce ne freghiamo di “lui”? Donne del Padre, mi tormenterete sempre: mi fate sentire più simile a un uomo che alla mia specie.
8 nov. Entro in una stanza dove ci sarà una riunione e, con sorpresa mia e anche delle organizzatrici, appare piena zeppa di ragazze affollate intorno a un tavolo ovale; vedo una miriade di camicette bianche e tanti visi che avevo riconosciuto un tempo all’inizio del femminismo e poi non si erano visti più. Adesso sono tornate attratte dalla mia presenza. Faccio il giro del tavolo e bacio quelle che riconosco. Di che parleremo? Qualcuno mi tocca sulla spalla, mi volto e vedo Lucia sorridente che essendo per caso anche lei in quella città, aveva approfittato per venire. Ci baciamo come avendo alle spalle una lunga e solida intesa. A un certo punto mi accorgo che le organizzatrici hanno sistemato così la stanza: un tavolo lungo, separato da uno schermo di vetro dal resto del locale, divide in realtà me dalle altre. A causa del vetro probabilmente non potremo nemmeno sentirci. Io dico “No no, non vengo lì: non mi piace questa sistemazione”. E sebbene le organizzatrici siano probabilmente seccate, io cerco un posto fra le altre. Poi la scena cambia e stiamo entrando in una specie di chiesa dove c’è già della gente. Anche lì cerco Un posto, ma sono tutti occupati: ogni ragazza poggia la mano sulla panca vicino a sé per indicarmi che è preso. Potrei stare accanto a una tale, una donna di mondo, moglie di artista, ma so che dice male di me tutta la settimana: sarebbe assurdo fare finta di niente. Gielo dico chiaro e tondo e mi allontano. Trovo una specie di asse, largo più di una panca, ma bagnato e assolutamente in bilico appena provo a sedermi. Poi mi astraggo, guardo in alto come se ci fosse la proiezione di un film su verso la cupola dell’edificio, e mi dimentico di tutto. Quando torno in me e mi ricordo perché sono lì molta gente è andata via, gli estranei, le persone di mondo; invece affluiscono ancora femministe. Un bel gruppo di nere alte e eleganti attira il mio sguardo. L’organizzatrice le conosce e, con improvvisa attitudine materna, fa un po’ di moine a una negra artista: le mette una specie di garza che le copre il viso. Quella si lamenta un po’ della sua sorte con modi di gattina. Si spoglia o vuole spogliarsi, non sono sicura. Spogliarsi col viso coperto mi sembra orribile, imbarazzante, Poi siamo una brigata di amici le femministe sono sparite o quasi – è notte. Vedo un tale abbracciato a altri giovani, lo apostrofo con sicurezza dimostrativa e una certa sorpresa “Ciao, come stai?”. Lui risponde gentilmente, ma noto che ha un po’ il timore di me, certo a causa della mia fama di femminista. Ricordo vagamente che deve essere morto. Saliamo su un camion che, traballando, se ne parte a gran velocità nella notte. E l’i parliamo, evochiamo amici, intanto che la città si snoda sotto i nostri occhi. Io sto mangiando semi di zucca e vado avanti coscienziosamente, anzi faccio un mucchietto di bucce sul sedile. A un tratto un uomo, certo per aiutarmi a sopportare il sobbalzo del camion e darmi stabilità, mi mette una mano, o un scarpa o un attrezzo robusto sotto il sedere: lì per lì mi divincolo ostentatamente, mi dà fastidio e mi pare troppo confidenziale, poi cambio, provo una specie di languore e con la punta delle dita gli sfioro appena il collo, ma senza voltarmi. Poi pensando “Chissà se mi sono tradita”, ricomincio con i semi di zucca. Vicino a me vedo un poliziotto in divisa, ohibò, e anche una poliziotta, una bella ragazza giovane, tipo anni quaranta, sembra un’attrice tanto è ben truccata. Voglio parlare con lei e le chiedo come si chiama. “C.” mi risponde. “Solo C?” faccio io. “C.” ripete lei sorridendo staticamente. Intanto non ho più spazio sulla panca, e mi accorgo che in piedi finirei per cadere subito giù dal camion che è quasi senza spalliere, così mi sdraio per terra cercando di non mostrare troppo panico. Specialmente all’omossessuale di prima che è dietro di me, e certo mi aspetta al varco. Tentare di stare in piedi su un camion in corsa che attitudine incauta! Sdraiata, sempre continuando a mangiare semini, me la cavo. C’è una fermata, qualcosa di commovente perché vedo persone care sconosciute che si intrecciano, li, con la più grande naturalezza. Poi si riparte e io mi faccio di nuovo posto sulla panca accanto alla poliziotta, certo è stata lei a farmi perdere il posto prima, ma adesso che sono decisa a stare lì non protesta, e io ci sto.
Ieri sera avevo riletto i miei scritti del primo femminismo e parlato con Piera dei problemi di cui mi ero resa conto, a seguito del mio gesto verso Matilde.
Alcune associazioni e interpretazioni. Le camicette bianche mi ricordano quelle divise femminili fasciste. Il vetro che divide la stanza in due è il diaframma che ho sempre sentito nel gruppo e che dipende dall’organizzazione, cioè per come la cosa era nata io
”dovevo” stare al di qua del vetro. Cerco posto vicino alle altre, ma nessuna mi può accettare. L’asse in bilico è la mia precaria situazione tra le amiche femministe. Il film che assorbe tutta la mia attenzione è quello della mia vita, l’autocoscienza: una volta finito gli estranei sono spariti dalla stanza, cioè quelli con cui non potevo comunicare sono stati esclusi dalla mia vita. Le negre sono una razza a sé, così l’artista era una negra: l’arte in lei mi appare come qualcosa che le copre il viso, la coscienza, e le scopre il corpo, la sensibilità. L’uomo che abbraccia i giovani è figura sostitutiva di Pasolini, anche lui morto e omosessuale: temo di apparirgli illusa, sprovveduta, come a Pasolini nella lettera. Il mio posto sul camion e l’accettazione di me. La poliziotta si chiama C. (Cesare) come il mio primo amore (avvenuto alla fine degli anni quaranta), quello che mi aveva rimproverato le mie contraddizioni: mi faceva perdere fiducia in me; senza fiducia rischio di cadere. I semi di zucca sono l’intelligenza e i pensieri con i quali affronto la gita in camion, la mia vita. In particolare il posto, in questo caso, è il mio posto nei libretti verdi di Rivolta, a cui la poliziotta mi spinge a rinunciare. Ma dopo la sosta, in cui l’amore per l’umanità mi dà nuova sicurezza, sono pronta a proseguire. L’uomo che mi sorregge è Simone: mi sembra sconveniente accettare il suo aiuto che mi si presenta appunto in modo volgare, però poi provo affetto per il suo gesto, anche se gli faccio solo una piccola carezza timida di risposta: non sono pronta ad ammetterlo davanti a lui.
Cara Piera, quando mi hai detto che ti piace la mia intelligenza ho risposto “Non so se è intelligenza oppure insistere come un cane su un osso”. Dubbio: ho preso un atteggiamento di falsa modestia. Sara mi avrebbe aggredita “Ammettilo!”. Scioglimento: ho sempre pensato che l’intelligenza mi si è sviluppata per bisogno di autenticità e per districare i miei conflitti e dargli uno sbocco. Quindi quando ti ho risposto così era per alludere a quel tipo di intelligenza a cui mi sento collegata e a cui sento collegata anche te. Dubbi del genere ne ho molto spesso, in queste condizioni la stupidità sarebbe un suicidio.
Leggo su un quotidiano una canzonetta di Pasolini scritta con al collaborazione di Dacia Maraini (ecco, Pasolini non ere sensibile all’autenticità femminile, non l’ha mai riconosciuta). Termina così:
“I ragazzi giù nel campo non posseggono memoria perciò vendono gli antenati poi sono presi da tristezza”.
Allude al carattere malinconico del rifiuto del Padre.
Stasera che peccato che non ci fosse Pasolini alla tavola rotonda in TV dove si commemorava la sua morte! Moravia è stato sul punto di scoprirsi tanto era nervoso, ma un patriarca non può farlo, non può tornare indietro, è inchiodato al duro ruolo di giudice. Lì erano tutti padri: impreparati, inadeguati, indignati, ma sulla difensiva. Ho chiamato Matilde a Milano: sapevo esattamente che “la donna di mondo, moglie di un artista, che dice male di me tutta la settimana” alludeva a Matilde, ma non intendevo ammetterlo finché lei stessa non mi ha confermato che è stato così. Anche questa volta mi è scattata la paura, ma glielo ho confessato che temo di essere respinta. Che conseguenze può avere questo? Che mi veda bisognosa, esattamente come si sente lei. Oppure le sarò apparsa ricattatoria? Mi ha detto “Tu nei rapporti dai molto, ma anche prendi molto”, lo ha detto come un rimprovero. Le è venuta in mente Paula e si è chiesta se lei non ha scelto la libertà andandosene. Finalmente mi mette in questione.
Mi sento tranquilla, vado per la mia strada, ognuna è responsabile di sé solo: ho preso e dato a seconda dei miei bisogni e dei bisogni delle altre. Dove Pasolini sbaglia è quando accusa la società di avere tradito le sue aspettative, invece è lui stesso responsabile dei suoi miti e quando guarda davvero la realtà e la scopre diversa, certo può trovare anche l’appiglio nella realtà, ma è lui che è cambiato. Anche Matilde mi accusa dentro di sé, mi sospetta di ambiguità, di calcolo, non sono quell’esemplare di purezza in cui mi aveva identificato. Ma è anche lei che ha mancato verso di me: io credevo che mi vedesse e non mi vedeva! Trascrivo da “Ho abiurato dalla trilogia della vita” di Pasolini:
“I giovani e i ragazzi del sottoproletariato romano se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche allora potenzialmente lo erano: erano quindi degli imbecilli costretti ad essere adorabili, degli squallidi criminali costretti ad essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti ad essere santamente innocenti, ecc. ecc. Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine (‘Corriere della Sera”, 9. nov. 75).
Ma non è forse Pasolini il primo a aver fatto ingiustizia al ragazzo delle borgate prendendolo per un essere esemplare da contrapporre al mondo civile? Cos’ha visto di lui se l’ha scambiato per un santo? Se lo ha travisato al punto di servirsene per puntellare il suo universo mentale che senza riconoscersi in un innocente in terra avrebbe resistito alla disperazione di sé? E cosa di più ingiusto poteva escogitare che prendersela con quei ragazzi, colpevoli di non essere stati all’altezza di un mito la cui durata dipendeva quasi esclusivamente dai tempi interni di Pasolini? E adesso darne quel quadro orrendo che certo non meritano come prima non meritavano il paradiso? Ma allora l’assassinio l’ha voluto lui per provare a se stesso, inequivocabilmente, le sue tesi. Tutti gli esseri umani fanno di queste proiezioni, lui le ha portate in fondo, la coscienza non è intervenuta a salvarlo. Qualcosa di analogo è avvenuto anche nel gruppo, e reciprocamente l’una con l’altra: l’odio dell’illusione perduta su cui poggiava la sicurezza di ciascuna, è stato terribile a provarsi e a subire. Ma la coscienza è lì per liberarci dai fantasmi, e ci regge la certezza sperimentata che l’errore subito è anche l’errore imposto. Pasolini non riusciva ad accettarsi:
“Dunque io mi sto adattando alla degradazione e sto accettando l’inaccettabile. Manovro per risistemare la mia vita. Sto dimenticando come erano prima le cose. Le amate facce di ieri cominciano a ingiallire. Mi è davanti – pian piano senza più alternative – il presente. (“Corriere della Sera” cit.)”.
Tuttavia il richiamo dell’Eros nudo, dell’incontro fortuito nella notte, è anche un tentativo di continuare a vivere proiettando su altri l’innocenza. Anche il masochismo sessuale di Pasolini, il suo bisogno di essere battuto, fa parte di questo cerimoniale di sottomissione a un essere che incarni la sconoscenza del bene e del male. Qualcuno doveva aiutarlo a liberarsi, ma la strada imboccata era senza uscita. Così io subivo i colpi da Sara senza ribellarmi, mi innamoravo di chi rappresentava ai miei occhi quell’incarnazione, andavo in giro per captare quel tono, quell’inflessione di verità. Come io mi sono sentita tradita dalle amiche femministe, Pasolini si è sentito tradito dai suoi ragazzi di vita, come io perseveravo con le mie amiche rimaste, lui perseverava negli incontri notturni; come io avevo paura del loro odio, del loro rifiuto, lui aveva paura di essere ucciso. Ma mente Pasolini andava da quei ragazzi dicendo “L’umanità mi è odiosa”, io non potevo fare a meno di volere amare e essere amata “nonostante tutto”.
Mi è venuto in mente che il mio rapporto con suor Caterina era basato sulle emozioni dolorose che mi procuravano i dubbi che suscitavo. Di quei colloqui ricordo uno sconvolgimento terribile: di volta in volta mi aspettavo il suo verdetto e,” immersa in uno stato d’animo di smarrimento e di sentimenti straboccanti, le balbettavo il mio affetto. Ricordo che le ginocchia mi si piegavano. Anche stamani, mentre Matilde mi faceva intravedere i suoi sospetti e la sua delusione, ho provato un’emozione strana, sproporzionata, come un bisogno di umiliarmi, di dire qualcosa di intimo, quasi inarticolato, perdendo il pudore come si fa da bambini o da innamorati. Eppure non sono innamorata di Matilde, questo lo so.
a cura di Marina Virdis