carriere

l’azienda scuola

la scuola è destinata a diventare un’impresa come un’altra indipendentemente dal fatto che ha a che fare con una ‘merce’ particolare, gli studenti? “me li sogno come un incubo ricorrente, non posso lasciarli in ufficio 28 come delle scartoffie…”

novembre 1982

È su di loro, sugli insegnanti di ogni ordine e grado, che oggi si puntano i riflettori. Non più per condannare l’autoritarismo o l’eccessivo permissivismo, né per denunciarne l’incompetenza: psicologi, ricercatori, giornalisti, cercano di scandagliare il loro disagio, l’insoddisfazione dichiarata, l’acidità rivendicativa per risalire alle cause della fuga, a rotta di collo, dalla scuola.
Solo a Roma e provincia quest’anno, su tremila lavoratori della scuola che sono andati in pensione, oltre duemila sono dimissionari e, in maggioranza, di età che non supera i 50 anni. Il fenomeno è nazionale, più accentuato al Centro-Sud, e si inserisce in un’ondata di prepensionamenti volontari che sembra abbia coinvolto nei primi otto mesi di quest’anno ben 450 mila dipendenti pubblici.
Un vero scandalo, da ogni parte si grida contro i privilegi degli statali e cresce il disprezzo per questo settore di lavoratori già ufficialmente etichettati come i più lavativi in assoluto. Ma, per quanto riguarda gli inseganti, la malattia è davvero la voglia di far niente? 0 la colpa è dei soldi che sono troppo pochi, o della paura di essere equiparati —se si aspetta l’età giusta— ai pensionati INPS? Oppure è perché mancano incentivi nella carriera, ovvero la carriera è inesistente? E se la colpa invece fosse soprattutto degli studenti?
Questo nessuno lo dice apertamente, in fin dei conti i giovani sono sempre la speranza dell’avvenire, ma molti lo pensano.
Per dieci anni e più gli studenti erano stati la spina nel fianco, fonte di ango-scie e sensi di colpa per intere generazioni di adulti, oggetto di analisi, inchieste, sondaggi, repressioni, pietismi, gratificazioni, punizioni; oggi però che le loro file tendono ad assottigliarsi (nel 1990 saranno due milioni), che marciano disciplinati o per lo meno indifferenti, che accettano la gerarchia e riconoscono il valore del merito, che sono diventati una variabile prevedibile, di loro non ci si occupa più. Né loro parlano di sé. Gli insegnanti in crisi di identità ce li rappresentano spesso come una massa ininteressante e convenzionale di tontoloni privi di ideali e di ribellioni, al più vittime imbelli di ogni sorta di artificiale evasione, dalla siringa alla TV. Sta di fatto che neppure negli anni duri della contestazione, quando era all’ordine del giorno il processo popolare al professore di latino e la gogna a quello di italiano, si era visto un tale esodo di insegnanti dalla scuola, né si era registrata tanta frustrazione nel mestiere di docente. Inoltre, dato ancora più significativo, ad andarsene sono quelli entrati più recentemente nella scuola, durante il boom della scolarizzazione di massa, quelli che erano stati i più disponibili al dialogo con i movimenti, i più radicali nel rimettere in discussione il proprio ruolo. Se ne vanno molto spesso i migliori, ed è magra consolazione per chi ha a cuore il futuro della scuola italiana, che il prepensionamento di massa compensi il calo demografico e offra una valvola di sfogo alle migliaia di precari che premono per garantirsi a loro volta il diritto alla pensione anticipata. Un diritto-privilegio che comincia, per i dipendenti statali, ai tempi di Cavour e che fu concesso, all’inizio, per favorire un rapido ricambio del personale statale in parallelo col ricambio del vertice politico. Utilizzando questo “privilegio” il fascismo riuscì a mandare anticipatamente in pensione 65.000 lavoratori dello stato e a sostituirli con persone che dessero al regime maggiori garanzie. Oggi la possibilità di andare in pensione dopo 19 anni, sei mesi e un giorno di servizio, quindici per le donne coniugate con prole a cui il matrimonio regala cinque anni, compensa —inadeguatamente dicono tutti— la miseria delle retribuzioni, tra le più basse d’Europa. Parliamo di insegnanti ma è necessario subito precisare; la maggioranza di quelli che se ne vanno sono donne, così come sono donne la maggioranza di quelli che restano e di quelli che vogliono entrare. Che scuola fosse un sostantivo di genere femminile, come mamma, lo si era sempre saputo, ma negli ultimi due anni, per gli effetti della scolarizzazione femminile di massa, la femminilizzazione della scuola italiana ha avuto ulteriori sviluppi. Donne sono il 99,8% degli insegnanti della scuola materna (è solo dal 1978 che anche gli uomini possono accedervi e i maestri nella scuola materna sono attualmente 133 su tutto il territorio nazionale); 1*86,1% nella scuola elementare; il 65,7% nelle scuole medie; il 49,2% nella scuola secondaria. Concentrate soprattutto nel Centro Nord, sono sempre le donne le più assenteiste oltre che le più tempestive nel collocarsi a riposo. Nell’anno 1981 circa l’80% dei pensionamenti sono stati richiesti prima del raggiungimento dei limiti di età e non si prevede che il fenomeno diminuisca: da una recentissima indagine effettuata dal Censis su un campione di 777 insegnanti, risulta che il 50% degli intervistati conta di andare in pensione nei prossimi cinque anni.
Ma che fanno poi le ex professoresse prepensionate con meno di quarant’ anni? Poche, a quanto sembra, tornano a casa e basta. Poche, anche, scelgono o trovano un altro impiego con orari fissi. Fioriscono invece, oltre alle immancabili lezioni private, piccole attività part-time, dalla correzione di bozze alla falegnameria artigiana, e non è raro il caso dell’ex insegnante che apre un negozietto con l’amica. Pochissime rimpiangono la scuola abbandonata: «insegnare logora più di quanto non si creda», si giustificano, e aggiungono che davvero non vale la pena di investire tante energie, tensioni, affettività per duecentomila lire al mese (tale è pressappoco la differenza tra pensione minima e stipendio). Quasi tutte contano per campare o per far campare i figli, sullo stipendio di un marito o di un compagno. Cosi succede, spiega un funzionario del Provveditorato di Roma, che le donne vanno in pensione a 35, 40, 50 anni, a seconda delle esigenze familiari o delle proprie esigenze soggettive, mentre molto diverso è il comportamento degli uomini. Se scelgono il prepensionamento lo fanno intorno ai quarant’ anni e se hanno trovato un altro impiego a tempo pieno (o un’attività da liberi professionisti). Superata l’età che ancora consente di intraprendere una nuova carriera altrove, gli uomini non si prepensionano e restano fino alla fine. E non solo perché nel loro ancora stabile ruolo di “mantenitori di famiglie” servono anche le duecentomila lire di cui sopra, ma anche per ragioni di sicurezza psicologica: un uomo deve avere un lavoro stabile, sicuro e definito per sentirsi tale e non considerarsi o essere considerato allo sbando. Vale anche per gli insegnanti quanto si è detto e scritto sulle nevrosi dei cassintegrati ben più gravi di quelle delle donne nella medesima situazione che trovano, ovviamente, immediata collocazione nell’attività domestica o in piccole attività terziarie.
Insomma, la pensione giovane è soprattutto donna; l’indagine del Censis, commissionata dal Ministero della Pubblica Istruzione, suggerisce come causa principale della disaffezione dalla scuola il mancato riconoscimento, in termini economici e di prestigio, del merito. A questo proposito risposta chiave del questionario proposto dai ricercatori è considerata quella in cui quasi la metà degli intervistati afferma di considerare sufficiente l’attuale stipendio, ma inadeguato a compensare chi si impegna veramente. «La domanda è stata posta in modo truffaldino —obietta Giorgio Sciotto della CGIL scuola— come tutta l’inchiesta del Censis: le interviste vengono usate per suffragare proposte precostituite».
Al Censis infatti gli stessi ricercatori ammettono di essere partiti dall’ipotesi che la crisi degli insegnanti italiani sia da ricondurre alla mancata articolazione della carriera e presentano nel loro rapporto (assunto come base di riflessione anche dai sindacati) proposte di modifica nella professionalità del docente: orari differenziati, monetizzazione dei corsi di aggiornamento e delle particolari condizioni di disagio (per esempio per chi insegna in scuole diverse o in luoghi geograficamente scomodi), istituzione di nuove figure professionali legate all’organizzazione del lavoro dentro la scuola, mobilità verso le amministrazioni locali. Il Censis in questo modo, ha scritto Sciotto sul “Manifesto”, «vuole introdurre nella scuola modelli aziendali, riproporre un salario sganciato dalla qualità del lavoro svolto, ma legato alla preparazione individuale, confermando il più vecchio dei modelli scolastici, l’insegnante individualista». Poiché l’insegante non ha più la vocazione né la voglia di continuare a fare, gratis, il missionario, lo si vuole trasformare in un impiegato punto e basta? Questa sembra essere la tendenza maggioritaria presente al Ministero e tra le forze politiche e sindacali. La scuola sembra quindi destinata a diventare un’azienda come le altre, indipendentemente dall’avere a che fare con una merce così particolare quali sono gli studenti.
E questa la via per far riaffezionare gli insegnanti alla scuola? Molte candidate alla pensione interpellate per questo articolo non lo credono. Ammettono che esiste un problema oltre che di danaro, di definizione della professionalità («è diverso fare lezione e basta, ed occuparsi invece di tutta l’organizzazione della vita scolastica, ma come si fa a quantificare questo tipo di impegno?»), ma aggiungono che sono i rapporti con gli studenti, con i loro genitori, con gli altri colleghi, all’origine della scelta di lasciare la scuola. «Me li sogno di notte, come un incubo ricorrente. Non posso lasciarli in ufficio come delle scartoffie, accompagnano tutta la mia giornata. E con loro, con tutti loro, mi sento impotente». Queste parole di Anna, professoressa di lettere in un liceo romano, riassumono
i sentimenti di molte. Anna, come una gran parte di quelle arrivate quest’anno all’età della pensione minima, faceva l’università nel ’68 e frequentava i collettivi femministi negli anni ’70. «Ora sono stufa di occuparmi degli altri e di altro. Voglio pensare anche a me, fare un lavoro che non mi perseguiti tutta la giornata». Parole che possono sembrare strane sulle labbra di chi ha un orario di lavoro dei più comodi (18 ore settimanali) e si gode due mesi di vacanza l’anno oltre che praticare un altro mese abbondante di assenze (ogni insegante donna totalizza 35,4 giornate di assenza l’anno —dicono le statistiche— contro le 20 giornate dei colleghi di sesso maschile). «I miei colleghi maschi —spiega Anna, che assumiamo come interlocutrice “campione”— soffrono meno la vita della scuola perché se la prendono di meno, tengono maggiormente le distanze dai ragazzi, non si fanno coinvolgere».
Ma secondo il Dott. Ciccone, che dirige la sezione Pensioni e riscatti del Provveditorato di Roma, nel boom del prepensionamento scoppiato quest’anno, c’entra poco la crisi dell’ideale pedagogico. «Non è una caso che il maggior numero di domande di ricostruzione della carriera siano fioccate dopo il 3 agosto, quando la stampa ha dato notizia che un articolo della legge finanziaria avrebbe eliminato per le donne coniugate il riconoscimento dei cinque anni». Una notizia rivelatasi poi falsa, ed anche tendenziosa —dicono alla Cgil— fatta apposta per cacciare 30.000 insegnanti fuori dalla scuola. «In realtà —continua Ciccone— il prepensionamento si era già dimostrato particolarmente appetibile dopo l’ultimo contratto che riconosce e monetizza le anzianità pregresse e le paga in blocco a chi si colloca a riposo».
Ad accelerare la fuga i vari progetti di legge per inquadrare anche i pensionati dello Stato alle dipendenze dell’Inps: questa prospettiva ha seminato il panico nonostante le garanzie che sarebbero stati fatti salvi i diritti acquisiti. «Non c’è da scandalizzarsi né da giudicare corporativo tanto attaccamento a questi privilegi da parte degli statali —giustifica Ciccone— se si pensa che perfino il Provveditore agli studi non raggiunge il milione e mezzo di stipendio mensile». Lui stesso, il dott. Ciccone, dopo quindici anni di onorato e responsabile servizio con ruolo dirigente, non guadagna che
800.000 lire al mese.
Il problema sarebbe quindi, soltanto, di soldi e di carriera. Anna non è d’accordo, i problemi —dice— sono intrecciati: «Anche cinque anni fa guadagnavo poco, lavoravo tanto, non mi perdevo una riunione pomeridiana nonostante che nessuno mi pagasse quelle ore, ma non pensavo affatto di lasciare la scuola. È in atto una crisi di una intera generazione di insegnanti che hanno davvero cercato di rinnovare la scuola, anche se con molti errori. Ci siamo bruciati, e ora siamo soli». Anna è amara, sostiene di non vedere prospettive per sé, neppure nell’ipotesi della riforma nella scuola secondaria. «Non so più cosa voglia dire insegnare, non so cosa insegnare. Non voglio più fare la mamma, ma neppure diventare una video cassetta. Nel passato abbiamo certamente sbagliato trasformando la scuola in un’assemblea permanente. Da alcuni anni abbiamo tentato di recuperare il valore oggettivo delle materie ma il problema è a monte, è di linguaggio, di cultura, di modo di lavorare, ed anche di strutture». Sara, che insegna in un istituto tecnico romano, racconta di aver domandato in una terza, quanti avessero letto un libro negli ultimi due anni: un solo ragazzo ha dichiarato di averne letto uno, i “Racconti” di Calvino, che gli era stato messo in mano dalla sorella maggiore. Paola osserva che oggi la conoscenza avviene attraverso le immagini e che c’è un diverso processo di alfabetizzazione: a quattro anni un bambino sa usare perfettamente la tastiera elettronica del televisore, ma non ha mai giocato col pallottoliere, «noi ci siamo formati sui libri, parliamo una lingua che i nostri alunni non capiscono».
Siamo abituati, quando parliamo di insegnanti, a pensare soprattutto a quelli delle medie o delle superiori, ma la crisi è profonda anche tra quelli (o meglio quelle) delle elementari e delle materne, che oltre tutto fanno i conti con un orario di lavoro ben più massacrante e con una considerazione pubblica da serie C. La coscienza di essere inadeguati è tra gli insegnanti più diffusa di quanto non si immagini. A riprova lo straordinario affollamento dei corsi di aggiornamento, nonostante che a tutt’oggi il frequentarli non comporti alcun miglioramento economico e di carriera. Quasi il 30% degli insegnanti intervistati dal Censis ha dichiarato che il tempo pieno inciderebbe molto o abbastanza sulla soddisfazione professionale, e moltissimi abbiamo sentito affermare che preferirebbero lavorare di più, ma “meglio”. Le domande che pongono gli insegnanti in crisi sembrano rimandare a interrogativi più generali e inquietanti sul rapporto tra la cultura così come l’abbiamo intesa anche a sinistra e le nuove generazioni dell’era elettronica; ma dal momento che le scuole non scoppiano più perché nascono meno bambini e gli studenti hanno smesso di contestare, queste domande non trovano eco. Le risposte istituzionali sembrano orientate a placare l’insoddisfazione dei docenti permettendo al più a qualcuno di diventare capufficio.