inchiesta u.s.a.
donna nera te ne vai
il femminismo bianco? “una politica per donne libere, eterosessuali, privilegiate economicamente, nient’altro che l’innalzamento di sé stesse” dice Barbara Smith, un’intellettuale americana, quali diversità oggi negli stati uniti fra femministe bianche e donne nere?
New York — «Il movimento femminista bianco: non rappresenta che sé stesso!» — Più che una accusa, è il ricorrente ritornello delle donne nere che ormai premono da svariate posizioni per riformulare e ridefinire l’immagine complessiva del movimento femminista americano, reintegrato anche delle molteplici esperienze maturate e dalla rabbia accumulata delle donne nere e del Terzo mondo. Lo scopo finale è quello di promuovere una cultura eterogenea di tutte le donne, articolata ed interrazziale, più generalizzata e non di classe.
I comportamenti del passato prossimo come la nascita dello stesso movimento femminista servono a fornire i capi d’accusa: «Le intenzioni originarie erano ben orientate e rivolte a canalizzare tutte le “issues” delle donne bianche e nere nel movimento femminista. Purtroppo —aggiungono ora le intellettuali nere— tutto ciò non si è poi concretizzato e sono rimaste solo le buone intenzioni».
Investita del suo ruolo egemone, la donna bianca ha infatti riversato le sue energie su questioni prioritarie legate alla propria condizione e al proprio futuro, mentre alle nere “meno politicizzate” è toccato restare ancora in lista d’attesa con i propri problemi, sempre che prima avessero accettato di considerare fondamentali e prioritari gli indirizzi culturali, meglio illustrati e motivati e, naturalmente, più fascinosi delle bianche emancipate.
Così il progressivo disimpegno delle nere è passato inosservato e qualche volta condannato come manifestazione di scarsa sensibilità ai problemi del femminismo. Solo la sincerità di poche bianche ha permesso di rendere pubbliche e motivate le ragioni di questa fuga, accettando cosi di rimettere in discussione il proprio status di privilegiate e la mancanza di coerenza delle bianche nel riassegnare alle nere il compito di “baby-sitter” mentre loro erano in “servizio” per la causa del femminismo.
La polemica ha finito per ritirare in ballo il “grande tema” del razzismo, con tutte le code accessorie dei sensi di colpa che questo lungo e frastagliato segmento di storia riesce ancora ad evocare negli americani. Il tema del razzismo è tornato così allo scoperto e non poteva essere altrimenti dato che non si può chiedere alle donne nere d’archiviare un sentimento con cui hanno convissuto per troppo tempo; un’affezione fobica di cui è tuttora affetta buona parte della nazione ed ancora identificata con la società e le istituzioni.
Scagliata contro la società bianca, l’accusa ha investito anche le donne bianche della classe media in quanto detentrici d’un maggiore potere politico ed economico e, di conseguenza, fighe involontarie del razzismo, inconsce continuatrici di quell’apartheid socio-culturale, ora riproposto nello stesso movimento femminista. Bollato di razzismo, dopo essere stato ricacciato nella cornicetta manierata di cultura anglo-sassone-americana ed incalzato da una vasta e virulenta pamphlettistica che non tollera le mezze misure, il movimento femminista bianco è stato cosi svilito e sminuito nei contenuti, attaccato sul filo rabbioso dei ricordi. Come testimoniano, ad esempio gli interventi di Barbara Smith che lo ridefinisce: «…una teoria politica per donne libere, eterosessuali e privilegiate economicamente. Nient’altro che l’innalzamento di se stesse»; o di Doris Davenport che nel saggio: “The Pathology of Racism: A conversation with Third World Wimmin”, (compreso nella raccolta: “This Bridge called my Back. Writing by Radicai Women of Color”, pubblicato l’anno scorso dalla Persephone Press), racconta la sua esperienza di femminista nera tra le bianche: «…quando partecipiamo ad un incontro insieme a loro, siamo viste sempre in maniera limitata ed oppressiva: o dobbiamo identificarci con loro condividendone vaioli, priorità e scopi; o, se accidentalmente ci riferiamo a qualcosa di specifico della nostra esperienza di nere, siamo subito viste in un’ottica ostile, minacciose e sovversive ai loro interessi». Una partecipazione mancata e sempre rimandata — quella delle femministe nere e del Terzo Mondo — su cui ha avuto buon gioco l’elitismo delle bianche che, abbarbicate sulla loro «sindrome di superiorità», si sono risolte e rinchiuse in circoli di casta, crudelmente indifferenti e virtualmente banditi alle donne nere, ritenute «minorenni» per le «idee progressite», ancora alle prese con problemi di retroguardia e senza una precisa identità culturale. Ma alla base ha continuato, comunque, ad operare quel sentimento contraddittorio, quell’ostilità latente, che la Shulasmith Firestone ha ampiamente analizzato in un suo saggio («Racism: The Sexism of the Family Man»): «Il rapporto tra donna bianca e nera è stato contrassegnato da ostilità reciproche e profonde — è la premessa della Firestone. // disprezzo della bianca verso la donna nera era motivato dalla grande licenziosità sessuale, dall’essere una “cagna” senza morale, attraente e sensuale. Il sentimento d’invidia nasceva invece dall’ammirazione per il coraggio, la grande efficienza e forza instancabile nel condurre il doppio lavoro (nelle piantagioni ed in casa) e per la libertà dal legame matrimoniale. Per le nere — spiega ancora la Firestone nel suo saggio — si trattava invece d’un misto di invidia e di profondo disprezzo, scaturito dall’essere testimone delle opportunità e privilegi goduti come la situazione di legittimità, protezione e confort di cui le bianche beneficiavano. Ma per entrambe non c’era altra alternativa all’essere una proprietà ‘pubblica’ o ‘privata’».
Dal loro isolamento, donne bianche e nere, scaricavano così la loro follia contrapponendosi l’una all’altra, senza accorgersi che proprio della loro frustrazione si avvantaggiava solo il loro reale nemico: l’uomo. Ancora oggi, sebbene i tempi e le situazioni siano cambiate e sia stata definitivamente aperta una consistente breccia in quel recinto d’ostilità e d’isolamento in cui le donne sono state trattenute, il rapporto tra donne bianche e nere pare risentire delle contrapposizioni sedimentate ed irrisolte del passato. Ma i conflitti tra donna bianca e nera impallidiscono al confronto dello svuotamento d’identità subito dalla donna nera al tempo dello schiavismo. Un tempo in cui la scena era dominata dal cupo e potente oppressore: quel padrone bianco (master-slave), che anche noi, ormai riconosciamo d’acchitto attraverso le innumerevoli trasposizioni della cinematografia americana. Per lui parlano le fustigazioni, le catene, i linciaggi, e le mutilazioni: ingredienti quotidiani della “vita domestica” nelle piantagioni, inflitti in abbondanza per mantenerne il controllo e piegarne la volontà.
Oltre ai comuni maltrattamenti, c’era sempre, per la donna nera, uno speciale trattamento a base di abusi sessuali e gravidanze utili, manovrate dai padroni bianchi e dai loro guardiani con lo scopo di accrescere e garantirsi il ricambio della forza-lavoro nelle piantagioni.
Da questo panorama di violenza e sopraffazione, è facile intendere come la famiglia nera abbia subito una totale spoliazione di significati e di scopi e quanto vi abbia invece, “giganteggiato” la figura del padrone bianco. Egli ha infatti mortificato il maschio nero, in termini di cancellazione d’autorità di capofamiglia e d’umiliazione del senso di paternità, facendo sì che per la donna si rendesse necessario assumere per intero l’onere di guida e continuità temporale per la numerosa prole.
Da questa situazione di “padre-madre”, assunta dalla donna al tempo dello schiavismo, scaturisce quel mito del “matriarcato nero” ancora presente nella società bianca, condiviso dalla letteratura tradizionale-popolare come dall’industria cinematografica, rivolta allo stile “old America”. Su questa “mistica” della mamma e balia nera “tutto fare”, “forte” ed autonoma, consolante ed energica, autosufficiente dal marito quanto basta per allevare i figli, è anche cresciuta l’assurda favola di una donna nera fisicamente più robusta, e quindi, assai adatta a svolgere lavori manuali faticosi e consistenti, oltre ad essere, contemporaneamente, “balia nera” dei propri figli e di quelli degli altri.
A demistificare questa immagine “utilitaristica” della donna nera, indistruttibile e tutto fare, ha contribuito magnificamente Michele Wallace col suo acuto ed originale libro, bestseller nazionale: “Black Macho and the Myth of the Super-Woman” (Il maschio nero e il mito della Super-donna) pubblicato dalla Warner Books, in cui sostiene che la “super-donna nera altro non è che la vittima vulnerabile delle circostanze e dell’ignoranza, la cui immagine è stata volutamente perpetuata perché “comoda e funzionale” alla società bianca”. In questa stessa direzione si muove, infatti, anche l’altro mito che vuole la donna nera impareggiabile “Storyteller” (racconta-storie), capace di infondere forza morale e coraggio attraverso i propri racconti, per lo più ispirati ad esempi di uomini e donne, coraggiosi e leali verso la propria gente, pronti anche all’estremo sacrificio pur di combattere l’oppressione della schiavitù.
Ma questo pur minimo ruolo di preminenza, acquisito per necessità durante lo schiavismo, la donna nera ha dovuto pure scontarlo nei rapporti con l’uomo nero, invidioso di quella briciola di potere in più toccatole in virtù di questa sua doppia funzione di donna e lavoratrice. Contemporaneamente, anche quel vigore fisico e mentale necessario ad affrontare l’enorme mole di lavoro, le è costata la perdita della mitica “femminilità”, un valore smarrito e non più ritrovato, che ha procurato la disaffezione dei suoi compagni nei suoi confronti, attratti e stregati dai fragili e ricercati modelli di eleganza e di stile, amministrati dalla società bianca. Inoltre, nell’uomo nero ha agito anche il cruccio del tarlo di non averla mai posseduta veramente o, peggio, d’averla dovuta dividere con l’odiato padrone bianco, in una minacciosa fantasticheria avvelenata dall’odio e dal risentimento di essere, forse, stato anteposto e preferito a lui, per qualche privilegio in più e per quella libertà sessuale che, a lui, in quanto schiavo era stata preclusa.
Ma questa grossolana tesi trova subito la via sbarrata in campo femminista e il rimprovero aspro di Angela Davis che, in “Women, race and class”, (Donne razza e classe), ammonisce come anche questo mito, aumentato dalla letteratura tradizionale americana, nasconda in effetti il suo reale “in put” di “coercizione sessuale”. «La coercizione sessuale — spiega infatti la Davis — ha lasciato il posto all’incoraggiamento e alla disponibilità delle donne nere verso l’uomo bianco».
Le fa eco la Shulasmith Firestone che nel suo già citato: “Racism: The sexims of the Family Man”, fornisce un utile profilo chiarificatore del “determinarsi” della donna nera. Dice: «… la donna nera non è né bianca né maschio. Ha sempre solo avuto la sua eterosessualità, che l’uomo bianco e nero hanno da sempre manipolato con la forza quando essi lo desideravano». È proprio questa percezione, non più rimossa, d’essere stata da sempre identificata come oggetto sessuale, risorsa di sesso e di lavoro non retribuito, prima del padrone bianco e poi del suo compagno nero, a rendere la donna nera incredula e diffidente, di fronte alla promessa di un futuro liberato con meno lavoro e responsabilità, che le riservasse una vita qualitativamente migliore.
In realtà, la donna nera non è riuscita ancora ad affrancarsi dall’antica soggezione, anche mentale, al “masterslave”, risortole a fianco nella più limitrofa figura del padrone-nero, altrettanto dispotico, arrogante e tirannico. Egli ha dimostrato di possedere una pessima memoria, quando ha rimosso il ricordo della comune sofferenza patita in secoli di schiavitù e di dominio, solo per aver conquistato il diritto al voto concesso — com’è noto — prima: «… a tutte le persone di qualunque razza e colore ma non di sesso” e solo successivamente esteso alle donne bianche e nere».
Questa sensazione di grande libertà e di supremazia maschile, unita alla gioia dì poter accedere ai diritti conquistati e alla parità con l’odiato padrone bianco, lo hanno ubriacato di potenza e di quel “maschio” tronfio e protervo, che gli ha consentito di “puntare” finalmente anche le donne bianche.
Ciò ha messo in crisi quella solidarietà tra la popolazione nera ed avanguardie democratiche bianche, nata al tempo delle leghe abolizioniste e rafforzatasi dalla durezza dello scontro su temi antirazziali e antisegregazionisti. Alle femministe bianche che avevano partecipato in prima fila e con trasporto a queste lotte, la rivelazione di questo improvviso “maschio” nero ha generato infatti comprensibili motivi di risentimento, delusione e diffidenza, non più rimossi.
Sempre il maschio nero, alle prese con la sua farsa di “campione del sesso”, ha provocato un ulteriore inasprimento nei rapporti già fragili e tesi tra donne bianche e nere. Ma, ancora una volta, le più penalizzate sono risultate le donne nere che, non potendo sfuggire ad un confronto diretto col proprio compagno, hanno sperimentato la sua mancanza di sincera disponibilità nel seguirle ed aiutarle nella lotta per l’emancipazione femminile. A New York, ad esempio, dove ancora oggi, nei ghetti di Harlem e del Bronx, è confinata la maggioranza della popolazione nera, la donna continua a mostrarsi avvilita, disorientata e sconvolta da quel “vagabondaggio” senza riscatto e da un “nomadismo” senza mete, con cui il suo compagno maschera il rifiuto di assumersi la responsabilità di una casa e d’una famiglia.
Troppo spesso, infatti, l’uomo nero torna a dividersi tra più d’una casa e d’una donna, entrambe usate come momentaneo rifugio, dietro cui spesso si nasconde la richiesta d’essere mantenuto economicamente. Ma i comportamenti della donna nera, fin qui visti, in rapporto alla donna bianca e al “padrone bianco”, dipendono anche da cause più sottili ed indistinte riposte nel passato, nella lontana memoria d’una propria espressività e il linguaggio originario imprigionati e perduti nel mito africano d’un diverso rapporto con la natura, la religione, la musica e le abitudini della propria gente.
Influenzata da queste “dipendenze” del passato e “permeabile” ai ricordi rivissuti attraverso i racconti di madri illetterate, nonne e zie, è subentrato nella donna nera quell’empatia con la madre e con la sua esperienza, da cui spesso trae origine un altro elemento spesso caratterizzante la personalità delle donne nere: il separatismo lesbico o la bisessualità, un modo per non “separarsi” da quei racconti e per vendicare la dolorosa esperienza patita dalle donne che l’hanno preceduta, un’operazione volta a dilatare la propria soggettività e sessualità fuori dai canoni coercitivi e padronali del maschio bianco e nero.
Per completare il quadro dei disagi e dei ritardi con cui la donna nera si è mossa incontro alla sua emancipazione, bisogna ancora rilevare l’oscuramento culturale in cui è cresciuta insieme a gran parte del popolo nero afro-americano, costretto ad emanciparsi attraverso una lenta e disturbata maturazione soggettiva. È quanto, anche, osserva Alice Walker nel suo saggio (“In Search of Our Mothers Gardens; the Creativity of the Black Woman in the Sut”), quando individua nelle “restrizioni sociali della schiavitù e nel “razzismo”, gli elementi che “hanno frenato la creatività delle donne nere”.
Gli esempi pratici non mancano specialmente in campo letterario: racconti di scrittrici di colore come Zora Neale Hurston, Margaret Walker, Toni Morrison, la già citata Alice Walker, André Lorde o paule Marshallm ruotano infatti attorno ad un universo femminile remoto che rievoca alla nostra memoria i roghi delle streghe del ‘600, dove le stregonerie, le magie, le vendette, riti ed erbe mediche, alimentano insieme di pratiche magiche e di attività esclusive che, in parte, mascherano la mancanza di potere e la necessità di recuperarlo anche irrazionalmente, attraverso una propria cultura ormai fuori corso. Da qui, l’esigenza manifestata da molte intellettuali femministe nere di «procedere ad uno sviluppo della letteratura e dell’arte nera» come pre-condizione per la donna a «guardarsi introspettivamente», a «conoscersi meglio e riformulare una propria soggettività e, per gradi, un’identità culturale».
Questo sentiero appena tracciato non comporterà, automaticamente, la conquista anche parziale di una roccaforte dell’industria culturale da sempre governato dalle bianche, ma potrà almeno attenuare quell’isolamento delle scrittrici nere che, in America, vengono ignorate più dello scrittore nero. Verrebbe così a sgonfiarsi anche l’altra accusa, toccata in dote alle donne nere, d’avere tutt’al più alimentato, un modesto fenomeno di sottocultura che, di riflesso, ha prodotto quella necessità dichiarata dalla Smith nel suo pamphlet: «Toward a Black Feminist Criticism» pubblicato nel 1977 dalla Out and Out Books, di dover favorire la nascita, autonoma e ben attrezzata di una critica nera femminista, depositaria delle “chiavi giuste” per accedere ai contenuti espressi dalle scrittrici nere.
Perché è importante — riportando un concetto da lei formulato — che “l’identità femminile” e “il razzismo sessuale e di classe” vengano assunti ed identificati come tradizione e cultura delle donne nere.