costume

i sogni nel borsellino

un’inchiesta tra le donne dei quartieri popolari: capuzzelle, anime del purgatorio e sogni diventano numeri da giocare al lotto, devianza, divertimento, o solo una 46 speranza di cambiare vita?

novembre 1982

Nel vano della porta si staglia la figura esitante di una donna, i suoi gesti tradiscono emozione e imbarazzo, ma la luce strana che emana dai suoi occhi rende indecifrabile il suo stato d’animo.
Seduta dietro un tavolo l’altra la guarda, aspettando che cominci a parlare. «Svergognati, proprio nel nostro letto! Con mia madre in un angolo che guardava. Il coltello me lo sono trovato in mano all’improvviso e… non c’aggio visto cchiù… ‘O sangue, ‘o sangue mammamia…!».
L’altra la scruta pensosa poi, fredda, sentenzia: «Le corna fanno 2, il sangue fa 12, madre 53». La signora sorride all’idea che il suo sogno poco edificante si trasformi nella realtà in un gratificante terno secco. E forse proprio per questo sborsa senza rimpianti una cifra che a noi sembra cospicua. Avevamo scelto Napoli per iniziare l’inchiesta sul rapporto fra le donne e il gioco del lotto spinte dalla «leggenda» che Napoli ne fosse la capitale. Mentre il primo episodio non ci delude, gli altri rafforzano le nostre convinzioni: nel giro di pochi minuti, una decina di donne di tutte le età affollano la ricevitoria in cui ci troviamo, (nel quartiere Stella, uno dei più popolosi della città). Ognuna ha il suo sogno in tasca, tutte la speranza di vincere. Emilia M. è la più anziana. Una veterana del brivido del sabato? Ci avviciniamo attratte da un suo strano gesto: allontanandosi dal banco, quasi furtivamente si è infilata le ricevute delle giocate nella scollatura dell’abito. «Guardate che tengo ‘n pietto…se va bene sono quasi due milioni…». Mica tanti per una vincita al lotto. «Ma io vengo raramente e gioco poco. Tanto non vinco mai…e poi non voglio fare mica come mia zia Luisina. Lei, quando il marito portava a casa «la settimana» se la spendeva tutta in giocate, e non aveva mai i soldi per la spesa. Allora veniva da mia madre, che era sua sorella, e tutti i giorni era la stessa storia, quando nu poch ‘e vino, quando ‘o pane…Però teneva la speranza per il sabato e tutti ì sabati la speranza moriva…Il marito trovava ogni sera il letto da rifare perché lei andava tutto il giorno sciusciulando per questa cosa del lotto. E non aveva avuto neanche i figli perché teneva l’utero infantile. Il marito la capiva: era un martire! Però così lei ci campava. Era molto superstiziosa, qualsiasi cosa succedeva se la giocava».
Peregrinando da una ricevitoria all’altra abbiamo spesso ripensato alla «zia Luisina». Molte delle donne a cui abbiamo chiesto i motivi del loro scommettere ci hanno risposto con evocazioni piuttosto che con spiegazioni. Ricordi di quando a Napoli il lotto nero (clandestino) era «’o gioco piccolo». I numeri invece che alla ricevitoria si giocavano presso un gestore privato, di regola una donna, che esercitava «il commercio» accumulando parecchi soldi; il più delle volte, infatti la sua attività somigliava più che altro ad un’usura: i numeri estratti al ministero delle Finanze raramente corrispondevano a quelli giocati presso di lei che, in questo caso, si accaparrava ‘il banco’. L’unico vantaggio che offriva era la possibilità di giocare a credito, un privilegio che però si pagava in caso di vincita sottoforma di ‘interessi’. Un’infrazione ‘casereccia’ al monopolio sul gioco del lotto. Un brivido in più o la speranza di aumentare la vincita? Niente a che fare, comunque con i fatti accaduti poco tempo fa a Roma: la scoperta di un giro clandestino di giocate che ha frodato circa settecento milioni alla settimana (ma qualche volta anche un miliardo), allo Stato. Un fenomeno che sembra esteso a tutte le città del nord e in particolare a Milano e a Genova.
Forse è opportuno ricordare che se Napoli è diventata col tempo la colorita capitale del lotto, Genova ne è stata la patria originaria. Nel XVI secolo, infatti, l’elezione dei cinque senatori della repubblica veniva affidata alla sorte che «sceglieva» attraverso un’estrazione fra novanta candidati. ‘Fuori dal palazzo’ la gente scommetteva sui nomi e per regolamentare le giocate: il governo della repubblica cominciò a gestirne il monopolio… I nomi dei senatori vennero sostituiti con quelli delle ragazze più povere della città e alle cinque estratte veniva regalata «una dote» (per questo il nome di «gioco delle zitelle»); per intenderci, quello che Enzo Tortora, (genovese), sta facendo in televisione con le sue ‘Cenerentole’. Tralasciando le considerazioni su questa forma di assistenzialismo il fatto che abbiamo appena citato dimostra il protagonismo, seppure passivo, che hanno avuto le donne, fin dall’inizio, rispetto al gioco del lotto.
Come tutta la tradizione esoterica e cabalistica, anche il lotto è basato sui numeri, in questo caso novanta: veramente troppi per contare sulle possibilità casuali. E allora come si sceglie? A parte un’esigua minoranza che predilige metodi freddamente scientifici, i più preferiscono affidarsi al capriccio della sorte e alle sue molteplici, misteriose, manifestazioni. La trottola con i numeri da uno a novanta scendendo verso il sud diventa a Roma ‘il picchio’ e la ‘rolletta’ a Napoli. Qui c’è anche chi cerca di procurarsi una specie di raccomandazione dall’aldilà. Centinaia di persone adottano scheletri di morti insepolti («capuzzelle») e trascorrono quasi ogni lunedì della loro esistenza nei sotterranei della città lucidando con fervore teschi e tibie sconosciuti, un po’ per il culto delle «anime del purgatorio» e un po’ nell’inconfessata speranza che l’anima, ex inquilina del corpo, si sdebiti esaudendoli nei loro più ardenti desideri: lavoro, salute, e, naturalmente, dei numeri da giocare. L’85% di coloro che si dedicano al culto delle «capuzzelle» sono donne: più o meno la stessa percentuale delle giocatrici del lotto.
La maggioranza assoluta di coloro che intrattengono un rapporto di umanizzato affetto con l’«altro mondo», come la maggior parte di quelli che tentano il «colpo» della loro vita puntando denaro e speranza, sono dunque donne: una coincidenza significativa, che apre la strada a molte considerazioni e a qualche ipotesi. La cura della «capuzzella» e la visita alla ricevitoria presuppongono entrambe l’esistenza di un radicato e forse inconscio senso di «famiglia». Anche l’anonima «capa e morto» dei sotterranei napoletani riceve dalle sue devote, oltre che cure, un’identità, un nome, una storia fantastica. Entra insomma a far parte del nucleo familiare, e così come il nonno (e non soltanto lui) si scomoda di notte per donare la combinazione di numeri che apre forzieri di sogno. Chi decodifica questi messaggi entra in comunione con gli antenati, ma anche col proprio inconscio.
I numeri da giocare si possono trarre sia dall’interpretazione dei sogni con protagonisti viventi, sia dai fatti della vita quotidiana ma il ritualismo più rigido si concentra soprattutto intorno ai suggerimenti dati dai «trapassati». La chiave di lettura dei sogni offre combinazioni di numeri pressoché infinite e quindi l’«errore» (quando c’è) viene attribuito alla propria incapacità interpretativa piuttosto che, all’inattendibilità della fonte da cui provengono. Da qui la tradizione che sancisce l’obbligo di giocare non meno di tre volte le stesse cifre aumentando di volta in volta la somma puntata: una credenza popolare che, una volta di più, favorisce lo Stato.
Maria Grazia C. ha settant’anni, la incontriamo all’uscita di una ricevitoria del centro di Roma, proprio accanto al mercato più popolare del quartiere. È venuta a giocare per la seconda volta una quaterna «suggeritale» dal suo defunto primo marito: «Li ho giocati sulla ruota di Firenze perché lui si chiamava Francesco. Io gioco quasi tutte le settimane e qualche volta vinco anche parecchio —dice — l’ultima volta mi sono potuta comprare addirittura la pelliccia. Non mi ricordo come si chiama, ma è bella, tutta nera piena di ‘riccioletti’. Dopo aver lavorato per più di cinquant’anni, finalmente con il lotto mi sono potuta levare uno ‘sfizio ‘». A Maria Grazia C. la vincita ha dato la possibilità di realizzare un sogno lontano, a volte, invece, la vittoria si aspetta per uscire da una realtà opprimente. E il caso di Anna Maria, una donna dall’aspetto sfiorito che dimostra molto di più dei suoi trentacinque anni. «La fortuna? — dice — ma chi ci crede! … però gioco. Gioco a tutto: al lotto, al totocalcio, al Totip, all’Enalotto e le lotterie…certe volte pure a zecchinetta…Perché? Perché voglio aprire un negozio ma non ho una lira…I soldi per giocare? Normale: faccio la cresta sulla spesa tanto quel boia di mio marito se gli dico che la polpetta è di filetto ci crede…E ‘no squallidone. Grigio e noioso e io mica posso sta’ appresso a lui!»
In questo caso il lotto diventa “l’uscita di sicurezza” da una vita piatta: è praticamente il tentativo di far avverare il fotoromanzo che molto spesso è l’unico referente culturale di queste donne. Né c’è da meravigliarsi: la società, per quanto democratica possa essere, è selettiva, teorizza l’uguaglianza, ma ciascuno è condannato a restare nel proprio status sociale ed economico, ed è la stessa società, in fondo, che propone dei miti ma non offre gli strumenti per emularli. Gli status symbols non sono ottenibili con il lavoro quotidiano. E che cosa è il lotto se non una forma più semplice e alla portata di tutti della speculazione in borsa? Però a differenza di questa, e di parecchi altri giochi anche d’azzardo, non imita la vita; chi lo gioca non prende iniziative, ma lascia decidere alla sorte, cerca di vincere soprattutto sul destino o di prendersi una rivincita. In ogni caso è una negazione del lavoro e della pazienza, abolizione di ogni superiorità o diversità individuale e istaurazione di un’assoluta uguaglianza. Il fatto di perdere al lotto non crea problemi o crisi sulla propria validità individuale, la sconfitta in questo caso è solo una “perdita” perché il successo o l’insuccesso dipendono esclusivamente dal destino, o al massimo dalla fortuna.
Ma le eccezioni non sono rare: dal gioco si passa facilmente alla “malattia” e di lotto si può anche morire. A Roma, a Trastevere, tutti ricordano ancora l’anziana fruttivendola che, un paio di anni fa, si era interstardita sul 27. Un numero che ormai non “usciva” da centinaia di settimane, e in questo caso la regola di “continuare a giocare per poter vincere” si esaspera: bisogna continuare a “puntare” almeno per rifarsi. E così la fruttivendola ha cominciato un’escalation tragica: il passaggio dal prosciugamento dei propri risparmi al cassetto del negozio, poi un iter ogni volta più difficile: i gioielli e il corredo passavano dall’armadio di casa ai freddi ripiani del “Monte di Pietà” e, con i soldi in tasca, di corsa alla ricevitoria di Vicolo del Cinque. Il tutto, come spesso avviene in questi casi, di nascosto del marito. Un milione era la cifra puntata l’ultima volta: tanto, troppo, per continuare. E forse per questo il cuore dell’anziana signora non ha retto all’ennesima delusione. Il 27 è uscito ad una settimana esatta dalla morte della fruttivendola.
Un caso limite questo, in cui però si ritrovano schemi e particolari ricorrenti che caratterizzano questo gioco.
La roulette, lo chemin de ter, hanno una connotazione mondana, vengono ospitati in bei luoghi dove ci si conosce tutti o comunque si riconosce la propria classe. Il lotto è solitario (gli incontri occasionali in ricevitoria non possono certo considerarsi opportunità di socializzazione), se non addirittura clandestino (dalla vicina di casa si preferisce non essere viste). In particolare per le casalinghe, disabituate a gestire in toto il reddito familiare, la destinazione di una cifra al rischio, costituisce il massimo della trasgressione.
Spesso non sono ufficialmente sostenute né dalla classe sociale a cui appartengono né dalla famiglia, e quindi rimangono sole a “sopportarne” il peso. Lo Stato, invece, l’incoraggia: è il banco che incita i giocatori a puntare: sa, che comunque, è lui il vincitore perché beneficia largamente di un reddito – tassa che una volta tanto viene pagata con entusiasmo e brividi di piacere proprio dalle classi meno abbienti. Per questo, vengono pubblicizzate le grandi vincite in realtà piuttosto rare e quindi ancor più prestigiose. Renderle note è una forma di persuasione, nemmeno tanto occulta, a giocare o a puntare di più.
Ma tutte queste considerazioni, sembrano non interessare troppo chi gioca. Essenzialmente, almeno le donne che abbiamo intervistato, ricorrono al lotto per evadere dalla banalità della vita di tutti i giorni, Non solo economicamente (in caso di vincita) ma psicologicamente ogni settimana… fino al sabato…