mafia

spezzare l’incantesimo

donne vestite di nero. donne complici, donne contro, accomunate e divise dal rapporto con la mafia. come la parola del non potere diventa politica.

novembre 1982

«Vi prego, fate che la morte di mio padre non sia stata inutile. Aiutateci, me, mio fratello, mia sorella e i genitori di Emanuela». Rita Dalla Chiesa non riesce a dire altro, e del resto, forse, non ci sarebbe lo spazio per dire altro. Le tolgono il microfono e la commozione, vera e palpabile, lascia il posto all’ascolto distratto dei discorsi di Lama, Camiti e Benvenuto. Lotta alla mafia come lotta dell’intero movimento operaio nazionale, lotta alla mafia come lotta al potere mafioso, all’accumulazione illegale, lotta alla mafia come lotta contro la disoccupazione. Lotta alla mafia come lotta contro il traffico di eroina, contro la morte del buco. Questi i discorsi di fondo, quelli «politici» di chi (finalmente) non può più fare a meno di guardare in faccia quello che significa «mafia». L’assassinio di Dalla Chiesa, il mito nazionale delle lotte contro il terrorismo, di sua moglie Emanuela e dell’autista, Domenico Russo, ha costretto tutti ad aprire gli occhi.
E cosi per un mese di seguito i giornali parlano di «mafia», i mass media imbastiscono programmi «speciali», i partiti si accusano, si alleano, si aiutano a parare i colpi. Poi, il 16 ottobre, arrivano in centomila a Palermo. In realtà sono di meno, ma poco conta, c’è l’Italia che lavora, o che è «cassaintegrata», ci sono i «senzatetto», e ci sono gli studenti. I quadri intermedi dei sindacati e del partito comunista. Ci sono molti cattolici, e molti «cani-sciolti». C’è, lo dicono gli oratori, l’Italia onesta che spera ancora. Per tutti è ormai chiaro che parlare di mafia non significa parlare soltanto di delinquenza organizzata, o di storie che non toccano più «il cittadino che si fa i fatti suoi». Ma significa avere chiaro ormai che si tratta di potere economico e politico, di quello stesso che decide ed organizza la nostra vita quotidiana. Di quello che non fa le scuole, le case, e dà disoccupazione, di quello che si ritrova amico di Sindona e di Gelli, e di quello che, con l’alibi del garantismo, assolve i killer e i mandanti per «insufficienza di prove».
Ma c’è un filo tra questi centomila che vorrei cogliere: si tratta di un filo «nero» che è cominciato a sgretolarsi tanti anni fa, molto lentamente, e che negli ultimi anni è diventato sempre più evidentemente visibile nella storia nuova che scrive la Sicilia. Quella della lotta contro la mafia è ormai puntellata di donne vestite in nero che non si chiudono più dietro la porta della loro casa, a piangere il loro morto. Ma di donne che hanno fatto della loro disperazione personale un momento di lotta politica. Sono le cosi dette «vedove della mafia», a cui si aggiungono anche le «madri» o le «figlie». Sono vittime «esterne» della violenza mafiosa che improvvisamente vedono stravolta la loro vita senza che riescano a capire il perché, e senza che la loro vita quotidiana sia stata mai direttamente coinvolta nella gestione di quelle cose che hanno determinato la morte dei loro uomini.
Da Felicia Impastato (la madre di Peppino, esponente di Democrazia Proletaria, ucciso a Cinisi il 19 maggio 1978 dalla mafia del paese, una delle organizzazione «storiche» più forti del traffico di eroina) a Rita Dalla Chiesa, questi quattro anni hanno visto allungarsi inesorabilmente il filo che nero di lutto lega tante donne. Accanto a loro le altre. Le mogli, le sorelle, le madri dei boss, dei killer, dei potenti. Accanto ai 120 morti di quest’anno altrettante vedove, o donne disperate. Accanto ai 121 scomparsi per la «lupara bianca», altrettante storie di sofferenza.
Ma anche storie di complicità, di copertura, di silenzi colpevoli. Contro queste ha puntato il dito nei giorni scorsi Padre La Rosa, parroco gesuita della Vucciria, il mercato popolare, reso celebre dal quadro di Guttuso, dove non si vende soltanto frutta e verdura, ma tanta eroina. E successo dopo l’assassinio di un fruttivendolo, Pietro Perez, conosciuto da tutti come «Sparaspara», uno del giro. Erano circa le tre del pomeriggio, un’ora di quiete per il mercato, spezzata dai colpi di pistola dei killer. Anche Padre La Rosa dopo aver sentito i colpi, è andato a vedere. Il solito morto a terra, la solita folla intorno, la solita fuga «facile» dei killer. In un angolo due donne, piegate in terra che piangevano e urlavano: «Mi sembrava — ha detto — Padre La Rosa — una tragedia greca». E questo lo ha fatto imbestialire. È salito su una cassetta della frutta ed ha improvvisato una durissima predica, destinata a fare storia:
«Donne, questi pianti e queste tragedie adesso non servono, dovevate farle in casa, quando vedevate arrivare soldi, macchine, ville incompatibili con il ruolo di disoccupato di vostro marito». In molte famiglie le donne fanno quello che è sempre stato il loro compito: coprire, aiutare con il silenzio, non chiedere nulla. Ma in molte altre ormai fanno di più: il traffico di eroina ha fatto fare il salto di qualità anche alla loro complicità. Alle fermate dell’autobus con il figlio per mano consegnano le bustine ai tossicodipendenti, oppure viaggiano su e giù per l’Italia trasportando eroina nascosta dentro la borsa, Questo nei ceti dove l’arricchimento facile del traffico di eroina ha fatto saltare ogni regola. Nelle classi sociali più alte, dove il danaro a casa arriva anche da attività legali, le mogli in genere scoprono, (o fingono di scoprire?), la vera vita del marito quando questi viene arrestato o ucciso. Anche in questo caso spesso la copertura è immediata. A volte prendono in mano la gestione degli affari, in altri casi cominciano a tessere la trama della vendetta del loro clan contro quello che ha fatto fuori il proprio parente. Oppure, puntano il dito contro gli assassini del marito e riescono a denunciarli alla magistratura. Come Maria Benigno, a cui sono stati uccisi il marito e il cognato, entrambi non certo estranei al gioco arrogante della mafia. Sia in istruttoria che al processo d’assise Maria Benigno ha testimoniato contro Bagarella, uno dei boss di Corleone più potenti, «delfino» di Luciano Liggio. Ma il suo coraggio nasce da una presa di coscienza, oppure è una vendetta che non si è potuta realizzare in altro modo? Scrive Alfonso Madeo in un suo commento sul Corriere della Sera: <<E’ vero che non è la donna a uccidere e a prevaricare, ad esporsi alle manifestazioni di violenza, ma da ciò a ritenere che essa non abbia alcun ruolo ci corre. E’ la donna all’interno della famiglia di mafia a custodire i segreti più intimi. E’ intorno a lei che muoiono uomini e gli uomini tessono trame, accumulano, fingono, speculano. E ‘ lei ad incarnare la continuità della vendetta, a sopportare lutti e lacrime, combinare matrimoni, gestire eredità, distribuire consigli, legittimare lontananze e clandestinità Lei sa, non può non sapere». E continua sostenendo che questo suo rispetto della «religiosità familiare» la rende più permeabile alle predicazioni della Chiesa e infine alla recente decisione della «scomunica» ai mafiosi dei vescovi siciliani.
Non volendo minimizzare assolutamente il ruolo della donna nei clan mafiosi, sottolineare che la donna sia portatrice della cultura mafiosa quando vive negli ambienti mafiosi, non significa assolutamente nulla. Perché anche la donna che vive nella borghesia illuminata tende a trasmettere i valori del «clan» in cui vive, e così in genere quando si parla di trasmissione di cultura dominante si fa riferimento alla donna perché è la donna che continua a costituire e reggere il centro della società, la famiglia. E in ogni caso la donna che raccoglie come in una cassaforte i segreti del clan, e decide della vendetta, è ormai in una immagine di mafia che serve soltanto a non far capire la reale dimensione del fenomeno mafioso di oggi.
Oggi la mafia è una grossa multinazionale che ha acquisito tecniche, strumenti commerciali, e anche cultura del mondo dei grandi affari. E sono certamente gli uomini a dirigere e a decidere del mondo degli affari. Alle donne compete, sempre, essere moglie e madre, e gestire la quotidianeità senza chiedere e chiedersi nulla sul lavoro del marito. In silenzio. La contraddizione nasce quando c’è il delitto: di fronte all’assasinio del proprio uomo o del figlio la donna deve scegliere, perché è costretta a sapere. Guardiamo alla storia di Felicia Impastato, madre di un giovane che il 1968 e l’università avevano portato lontano dall’ambiente in cui aveva vissuto e contro di esso. Peppino Impastato, ucciso dalla mafia di Cinisi, legata alle cosche italo-americane più potenti, lottava contro il potere mafioso e con i suoi comizi aveva bloccato anche alcuni «affari» del clan di Cinisi. Venne ucciso con il tritolo nella speranza che tutti pensassero che fosse morto durante un attentato terrorista.
La madre, donna abituata a vivere in silenzio accanto ad un marito legato al clan, che per anni aveva subito l’ordine di far smettere il figlio e alla fine era morto in un incidente di macchina, è costretta a fare la sua scelta. Rompe i rapporti con i propri parenti, saluta con il pugno chiuso gli amici di suo figlio andati al funerale, e si costituisce parte civile nel processo contro ignoti (è ancora in istruttoria dopo quattro anni). Ma non solo, va sotto la casa di un proprio cognato legato al clan dei mafiosi noti e gli grida tutto il proprio odio e la propria rabbia. Da quel momento in poi violentando la sua storia esce dal proprio privato e ormai da quattro anni partecipa agli incontri, rilascia interviste, e parla: dice tutto quello che sa, denuncia. É la prima volta (negli anni precedenti era stato così per la madre di Turi Carnevale e poi per Serafina Battaglia moglie di un uomo di mafia ucciso dai propri complici), che una donna di questo mondo esce dal silenzio e accusa, trasformando il suo desiderio di vendetta in lotta politica. Ed è questo il passaggio che è avvenuto negli ultimi mesi anche per altre donne, vittime estranee al mondo mafioso.
Nell’agosto ’80 durante una trasmissione radiofonica dedicata al rapporto tra Donne e Mafia (si intitolava «Le ragioni del silenzio») furono intervistate alcune donne rimaste vedove, come Marina Reina (il marito, segretario provinciale della DC palermitana, fu ucciso nel 1978) e Giovanna Terranova (moglie del giudice deputato comunista ucciso nell’ottobre ’79). Le altre non avevano voluto partecipare perché: «Non sappiamo cosa dire, non sappiamo perché sono stati uccisi. Il nostro dire non serve a nulla». E Marina Reina, una donna molto giovane, disse: «Spero che questa intervista serva a fare andare avanti le indagini. Ma ci credo poco». E fu l’unica volta che accettò di parlare pubblicamente del suo dolore. Non così per Giovanna Terranova: denunzie, lettere a Pertini e infine la costituzione del “Comitato di lotta contro la mafia” di cui lei, con la vedova Costa, e la signora Mancuso, vedova dell’autista di Terranova, sono state le promotrici. E con loro Giuseppina La Torre, Rosy Di Salvo, Mercedes Russo. Con altre donne hanno cominciato a riunirsi, a organizzarsi insieme. Ormai hanno preso la parola. Una parola sofferta, che le ha costrette a rendere pubblico il loro dolore e quindi anche il privato dei loro mariti, uomini pubblici, uccisi per il loro ruolo pubblico.
È questo forse l’elemento più dirompente, e l’indicazione è venuta come testimonianza che quelle morti hanno stravolto profondamente non soltanto la loro famiglia ma anche la collettività e la libertà di tutti. Anche se la testimonianza non è venuta da tutte coloro che sono state colpite da questo dramma, l’effetto è di grande rilievo. Non tanto perché si organizzeranno convegni, dibattiti sul tema della cultura mafiosa, o perché le insegnanti potranno spiegare ai loro studenti cos’è la mafia, ma perché si è spezzato l’incantesimo del silenzio, da parte di chi, come le donne non sono dentro il gioco d’azzardo del potere mafioso, e del potere più in genere. Entrano, con una voce specifica, in una lotta che rischia di diventare un altro elemento di scontro dentro il mondo del potere maschile stesso. E la parola del non potere che «può» trasformare concretamente una realtà dove sì spara e si comanda con la stessa arroganza e prevaricazione. Questa può essere la garanzia di uscire fuori dal gioco o dai giochi. La parola di chi ha sempre dovuto dire: «Non so perché sia potuto succedere. Quando mio marito tornava a casa lasciava dietro la porta i problemi del suo lavoro». Anche quando questo lavoro avrebbe messo in pericolo se stesso e la sua famiglia. Perché la lotta contro la mafia non si può lasciare dietro la porta di casa.
E a partire dalle donne vestite a nero, le porte delle case cominciano ad aprirsi.