cultura

sinceramente virginia woolf

anche lei ha il suo centenario, lo ricordano un libro e una mostra, con discrezione anglosassone e un’inedita aria di famiglia.

novembre 1982

Se Virginia Woolf fosse soltanto quell’inattaccabile mostro sacro che conosciamo e non anche la tenera faccia incorniciata tra uri manicotto e un bavero di pelliccia che ci guarda con gli occhi perduti da un celebre ritratto di Cecil Beaton, verrebbe da sorvolare sul centenario della sua nascita che cade in questo scorcio dell’82. Confortati nella scelta dalla sua ironia per l’inesorabilità di tali eventi, che costringono a leggere, speculare, frugare nei cassetti di vittime illustri. Converrà allora ricordarla in modo poco rituale come si fa con un fantasma che evoca convivenze felici. Ci aiutano a collocarla su questo piano di domesticità segreta un libro e una mostra a lei dedicata nelle sale del Palazzo del Drago in via Quattro Fontane a Roma e curata da il Centro culturale Donnawomanfemme e dal British Council, con il patrocinio del Sindaco di Roma.
Il libro è l’edizione integrale di Night and day (Notte e giorno) apparso a Londra nel 1919, il secondo romanzo della Woolf che già i primi lettori attenti dell’Italia post-bellica e neorealista hanno potuto reperire nel catalogo della Eli nel 1957.
“Notte e giorno” è dedicato a Vanessa Bell, sorella di Virginia, e averlo ripubblicato non appare una scelta casuale della piccola casa editrice La Rosa di Torino. Il libro sollecita qualche riflessione sul rapporto tra privato (privato di una donna) e scrittura. Ma anche considerazioni su una dura applicazione alla scrittura, vero e proprio apprendistato di chi punta alto e forgia le ali. Virginia, mostra qui un suo nerbo, costruisce è vero un romanzo “realistico” di tipo convenzionale, con scene e dialoghi e personaggi tra le quinte di una Londra trasandata e salottiera che le è familiare ma il linguaggio è traversato da una sottile ironia che corrode personaggi e situazioni, mostrando di quel reale tutta la fragilità e provvisorietà. Più tardi altre saranno le scelte della Woolf: sfumate, allusive; e il linguaggio le rappresenterà con le sue parole-essenza, scarne ed assolute.
“Notte e giorno” è però affascinante a una lettura tra le righe come eco di un possibile freudiano romanzo familiare, imperniato su un rapporto tra i più intrigati, quello tra due sorelle. Katherine Hilbery, la protagonista, è un’attraente giovane aristocratica che dopo aver a lungo tentennato tra un intellettuale del suo ambiente e uno spasimante naif ma dotato, sceglie l’amore trasgressivo di quest’ultimo. Il romanzo si chiude sulle nozze di Katherine, coronate (si presume) da bambini.
È singolare il parallelo che si può stabilire tra il produrre figli di Katherine Vanessa e il produrre libri di Virginia: il 21 novembre del 1918 “Notte e giorno” è compiuto; nel giorno di Natale dello stesso anno, Nessa (Vanessa) dà alla luce una bambina. E Virginia non può fare a meno di pensare: “i romanzi, nel migliore dei casi, sono dei mostri goffi e quasi estinti”. Del resto “a nessuno importa un fico di quello che uno scrive…” (lettera a Katherine Arnold-Forster, del 9 ott. 1919). Delega, scambio di ruoli e invidia — come suggerisce Nadia Fusini nella sua nota finale al libro — per quell’esercito degli “eretti”, dei sani a cui Nessa appartiene? Virginia non può, non sa vestirsi, ad esempio: per lei comprare abiti è un “tormento”. Ma veste Nessa. “Tu sai che cosà orribile sia comprare vestiti…” scrive alla sorella nell’aprile del 1918. “E andata così: ho provato un negozio dopo l’altro, e poi, del tutto a casaccio, sono andata a comprarmi un mantello, o vestito, color vinaccia a righe nere…”. Di questa trasandatezza che Virginia nascondeva dietro goffi tentativi di eleganza — le pesanti calze di seta gialla — sorridevano i giovani Nicolson, i figli di Vita Sackville-West. “Ho passato la mattinata a scrivere di te” dice ancora Virginia a Nessa nella medesima lettera e aggiunge: “Ti ho fatto indossare un abito blu; devi essere estremamente misteriosa e romantica, e naturalmente lo sei”. Nessa vive, sa vivere, e Virginia, impotente a vivere, non può che catturare sulla pagina, per sé, la vita di lei. Invidia certo nobilmente risolta nella riparazione della pagina scritta; ma in questo gioco femminile di ruoli non vi è qualcosa del sottile legame psicologico che anche la von Trotta ha di recente intuito nei suoi Anni di piombo? La delega di Virginia a Nessa è anche identificazione di chi scrive con chi è “inscritto”, catturato nella pagina, altro da sé e insieme parte riposta e rimossa di sé.
E un gioco che gli scrittori conoscono e che costituisce una forma terapeutica, di compensazione narcisistica sulla vita attraverso Taf tabulazione e la scrittura; ma che qui, e in genere nei rapporti tra donne si complica e colora altrimenti. Passa attraverso la proiezione-identificazione il vissuto familiare antecedente — il padre e la madre: la parola e il silenzio, la produzione intellettuale e la produzione di figli, la trascuratezza (o la sobrietà) e l’eleganza — convenzioni è vero, ma anche realtà e prigionia del vivere che sono per una donna un continuo terreno di sfida. E di tensione. E di ambedue, la mostra di Palazzo del Drago ci fornisce visibilmente il tracciato.
I pannelli fotografici — la casa natale, le cabe, gli amici, gli affetti, gli oggetti — i brani delle lettere, qualche scarno arredo consentono di ricostruire una vita traversata dall’ansia e dall’inadeguatezza come segni precipui della contraddizione del vivere donna. Virginia e Bloomsbury, Virginia e Léonard, Virginia e Vita, Virginia snob, Virginia ironica, Virginia scavata e sottile sulle rive del fiume Ouse, dove cercò la morte con una pietra in tasca un mattino d’aprile del 1941. In un pannello della mostra — la riduzione di una lettera — è riportato un episodio della vita della Woolf che vale la pena ricordare: “Vuoi venire con me da Woolsworth a comprare una enorme gomma da cancellare?” dice un giorno Virginia alla piccola figlia di un’amica. E sarebbe una battuta davvero divertente se non aggiungesse subito dopo “Ci voglio cancellare tutti i miei romanzi”.

quei trasgressivi vittoriani
Quentin Bell, professore di storia dell’arte in pensione, è alto, ha fronte ampia, capelli bianchi e già biondi ravviati indietro e un po’ fluenti sul collo, una barba patriarcale dalla quale emerge un pallido incarnato inglese di porcellana trasparente. Porta con disinvoltura l’aria di famiglia che lo accomuna alla sorella di sua madre, Virginia Woolf, e il peso non lieve di avere scritto su di lei l’unica biografia accreditata e circolante per il mondo. E venuto a Roma a visitare una mostra fotografica e documentaria sulla celebre zia, allestita nelle sale del British Council, e a dire con garbo e umorismo la sua sulla Woolf in una conferenza alla quale ha voluto dare il titolo di Virginia e la verità. Accusato di avere manipolato, insieme a Nigel Nicolson, figlio di Vita Sackville-West l’ autore di una biografia sulla madre) lettere diari e notizie, edulcorando e convenzionando l’immagine di Virginia, si difende con prevedibile candore.
Chi scrive un romanzo, egli afferma, — e tale è anche una biografia romanzata
introduce nei fatti elementi di “trasformazione creativa”. Nel caso di Virginia Woolf poi, personaggio tanto affascinante, la tentazione di “romanzare” i fatti è sempre molto forte. Prima di mettere a punto la sua verità, quest’aristocratico signore vestito di scuro, accompagnato da una distinta signora vestita di grigio, Anne Olivier Bell, la moglie, che cura la pubblicazione delle lettere di Virginia Woolf, improvvisa una conferenza stampa in uno studiolo di Palazzo Del Drago.
Signor Bell visto che i centenari sono inesorabili, parliamone un pò ‘. Come ricorda il mondo, un secolo dopo, la nascita di Virginia Woolf?
In Europa sono previsti convegni e seminari: in Portogallo, in Olanda, naturalmente in Inghilterra. A dicembre si svolgerà un importante seminario a Parigi, al Centre Pompidou. Degli Stati Uniti non so molto, ma mi hanno scritto che si sta preparando qualcosa in Virginia e nel Texas.
Qual’ è il libro di Virginia Woolf più tradotto?
Gita al faro e Una stanza tutta per sé.
Come spiega lei, signor Bell, l’interesse delle donne per V. Woolf, per i suoi libri?
Virginia era una sostenitrice convinta dei diritti delle donne, si è battuta per esse, si è anche presentata in tribunale a difenderle, come nel caso della Radcliff accusata di oscenità per il suo libro “Il pezzo della solitudine”, ha scritto conferenze, saggi.
Si, signor Bell, questo è vero, lo dicono un po’ tutti. Ma lei signor Bell, cosa ne pensa? Le pare il solo motivo?
“Una stanza per sé” è un saggio molto brillante, forse il più brillante saggio scritto sull’argomento e non solo per le donne, ma per tutti, uomini e donne. Non le basta?
No, signor Bell, ma non importa. Come ricorda lei da bambino questa sua zia trasgressiva?
Come tutti i bambini io ero molto conformista e soffrivo molto di non avere genitori come gli altri, case come gli altri, amici di famiglia come quelli degli altri. Da noi tutto era sbagliato. I miei genitori erano sbagliati, i mobili erano sbagliati, persino la casa e il giardino erano sbagliati: troppa confusione, niente al posto giusto; un bel pasticcio capire ciò che era giusto e ciò che non lo era. Una volta Virginia, mia madre e gli altri che poi furono chiamati il gruppo di Bloomsbury da quel quartiere in cui tutti abitavano, fecero scoppiare quasi uno scandalo perché sollevarono dei problemi sulla Genesi dinanzi a un mio amico, che era figlio di un pastore. Sì, dalla corrosione di Bloomsbury non si salvava nulla. La fede patriottica, ad esempio, in un inglese anche il più disinvolto e trasgressivo è sacra, quasi un tabù: allora tutti si sentivano orgogliosi di essere inglesi, sudditi di un grande impero, una razza celeste di superiori colti. Ebbene anche il patriottismo veniva dileggiato senza pietà. Davvero non era comodo per un bambino crescere a Bloomsbury.