psicoanalisi
il vaso di pandora
“tutte queste cosiddette malattie, per tristi che siano, sono manifestazioni di fede, sforzo dell’individuo per rimanere l ancorato a un qualche territorio materno…”
Nel vasto tracciato reticolare dell’opera di Franz Kafka, si incrociano, e possono essere assunti come possibile percorso di lettura tra i tanti, “malattia” e “femminile”, come figure intorno a cui si dispone il testo. Accostamento non nuovo, che la cultura occidentale porta iscritto dentro di sé, come mostra il pensiero mitico, di cui la scrittura di Kafka mantiene talune cadenze e andamenti.
Nella cosmogonia di Esiodo si legge che fintantoché il genere umano fu costituito esclusivamente da uomini -una stirpe di maschi – esso non conobbe né il male né la fatica. Ma quando Zeus approntò per gli uomini “l’insidia minacciosa, contro la quale non v’è difesa” sotto le spoglie di Pandora, la prima donna, da allora “le malattie colpiscono gli uomini di giorno, vengono inattese di notte, fatali, mute, poiché Zeus, astuto, negò loro la voce”. Il linguaggio del mito dispone di un altro preciso referente, L’Androgino, per ribadire quello che la leggenda di Pandora espone già chiaramente: il bene sta nel corpo pieno e tutto-uno, dove il sesso gode un piacere indiviso che non si scambia né ha bisogno dell’Altro; il male e la sua origine stanno nella differenza (E in questa differenza sto la donna).
L’equazione femminile malattia, antica, si diceva, come la cultura che l’ha prodotta, ha portato il discorso intorno alla differenza sessuale a chiedersi se l’inconscio ha un sesso. Domanda che risulta inutile come quella sul sesso degli angeli, dal momento che l’incontro non può manifestarsi che attraverso i segni del sesso, ma, originariamente, non può averne uno. L’equazione femminile malattia, perciò, si produce nella differenza, ma è un prodotto della differenza. Essa agglutina il fantasma di castrazione e la mancanza del pene da parte della donna in un unico referente simbolico, la malattia, in un contesto, quello della poiesi mitica e del discorso poetico, che fa affiorare quanto il discorso della scienza copre. Equazione dunque, non meno densa di quella che delega, come certa psicoanalisi, alla lingua la definizione del femminile tramite la particela non (la donna non ha il pene), ma di segno opposto e contrario: là dove infatti la scienza rimuove o soltanto adombra con paura (Freud), il discorso del mito e il discorso poetico, semplicemente, dicono. Cosi, della malattia, Kafka scrive a Milena Jesenska: «Tu dici, Milena, che non comprendi. Cerca di comprende/io chiamandolo malattia. E una delle tante manifestazioni patologiche che la psicoanalisi crede di avere scoperto. Io non la chiamo malattia e credo che la parte terapeutica della psicoanalisi sia un tremendo errore. Tutte queste cosiddette malattie, per tristi che siano, sono manifestazioni di fede, sforzo dell’individuo per rimanere ancorato a un qualche territorio materno…». Ad Ottlala sorella – Kafka scrive della malattia come forma estrema della sopravvivenza, “trucco” disperato che l’organismo, nella sua totalità, mette in atto per rimanere in vita. Le immagini sono quelle di una battaglia che si svolge in una zona dell’essere malati assumono la stessa valenza: servono per sopravvivere. La malattia dunque qui non è muta – come voleva Esiodo – ma parla, e dice, attraverso la scrittura e il linguaggio degli organi, quanto il narcisismo suggerisce per ritoccare, nell’immaginario, il corpo della madre (e il concreto della “lesione” ripropone il fantasma di un’originaria mancanza-castrazione che la fantasia di incesto satura direttamente sul corpo).
Sotto ogni intenzione si acquatta la malattia come sotto una foglia d’albero. Se tu ti chini per vederla essa si sente scoperta, salta su, quella magra e muta malignità, e invece che schiacciata vuole essere fecondata da te. …Penso solamente alla spiegazione del male che escogitai per il caso mio e che si conviene in molti casi. Ecco, il cervello non riusciva a tollerare più le preoccupazioni e i dolori che gli erano imposti. Diceva: non ne posso più, mi tolga un po ‘ del mio peso e si potrà campare ancora un tantino. Allora si fecero avanti i polmoni, che, tanto, non avevano niente da perdere…
Insieme, e forse più dei carteggi che scambiano con le donne il sangue (Ottla), la colpa (Felice), la allucinata lucidità del monologo interiore (Milena), è in un racconto del 17 Un medico di campagna che la malattia affiora in tutto il suo fondo nero, lo stesso della madre e del sangue, e rivela i percorsi segreti che il narcisismo segna sul corpo. Vita “altra”, di cui il corpo è dotato, a sua insaputa.
Qualche parola sulla fabula. Un medico di campagna è la storia iperreale di un medico che non può raggiungere il malato perché manca del cavallo, e, una volta, come per magia trovatone non uno, ma ben due e raggiuntolo, non può curarlo perché non riesce a “vedere” la malattia. In definitiva una storia “carnevalesca”, nel più rigoroso senso bachtiniano. La sua economia profonda sta nel capovolgimento identità dei ruoli dei medico che finisce nel letto del malato come malato, e del malato che, in questa iperreale vicinanza, si fa da sé la terribile diagnosi: “Con una bella ferita sono venuto al mondo. E stato tutto il mio corredo». Ferita che, a tuttaprima, il medico aveva visto, e che solo l’intervento paradigmatico di due donne del racconto – la madre e la sorella del malato – rende evidente; come se il femminile servisse da filtro a un professionale, quanto vano, sguardo medico.
Ferita che addensa su di sé l’altissimo potere figurale del testo, ed è al tempo stesso, agli effetti della narrazione, reale e simbolica. Infatti nel momento stesso che il medico, nudo, viene messo a giacere accanto al malato “dalla parte della ferita”, essa li accomuna entrambi, medico e malato, in un unico destino di nascita in cui ricombaciano. La ferita dunque compare nel racconto, fino a qui, in un doppio significato, storico e metastorico, di tagli che immette il soggetto nell’universo della differenza e ne fa, da una parte un “nato da donna”: dall’altro riconferma, come segno, l’appartenenza del corpo soggettivo al corpo totale della madre, il suo essere “nato di donna” un nodo da sciogliere
un nodo da sciogliere
Il tema iniziale della “mancanza” (quella del cavallo), dunque, svolge il suo largo percorso semantico fino a toccare le figure centrali del testo e le annoda. Tentiamo di sciogliere questo nodo.
Quello che si gioca nel testo quanto alla malattia, mai direttamente nominata ma concretamente presente come luogo che azzera la differenza tra il medico e il malato, si risolve tutto nel la figura della ferita che nel suo polisenso di corpo/sesso aperto, castrazione simbolica, rimanda direttamente, in una semantica del sesso, al femminile. In tale semantica la ferita è, per l’un sesso come per l’altro, narcisistica, e viene assunta nel doppio senso di ferita originaria (la nascita che taglia via dal corpo materno) è castrazione (immaginaria per l’uomo, simbolica per la donna) e ripropone e riafferma prepotentemente l’unità dell’organismo leso. Così il racconto mette in scena, puntualmente, incesto e omosessualità, le due possibili “uscite” con cui il narcisismo sutura la ferita originaria:
…la madre sta al capezzale e mi ci attira…
…la sorella agita un pesante asciugamano intriso di sangue… …e vengono i familiari e gli anziani del villaggio, mi prendono per la testa e per i piedi e mi mettono a letto. Verso il muro, dalla parte della ferita mi mettono…
Con un corpo simile al proprio o nel sangue o nel sesso, la mancanza infatti si colma. Nei due corpi del medico e del malato che si toccano “dalla parte del la ferita” l’essere lacerato ricombacia. Un femminile inteso come luogo di avvio e di ritorno del narcisismo originario occupa – sappiamo dalla psicoanalisi – il posto del “rimosso” nell’economia complessiva dell’essere umano e, perciò stesso, può affiorare “spostato” assumendo le svariate forme della malattia. Questo assunto compare – per altro senza precisa intenzione – anche nel discorso di Kafka che radicalizza e spinge fino alle estreme conseguenze taluni assunti teorici della psicoanalisi tra i più problematici, con soluzioni che troverebbero certamente consenso presso il Freud di Al di là del principio di piacere. Le lettere, soprattutto, che interpretano la malattia come circuito regressivo che ancóra l’individuo a “un qualche territorio materno”, sono strettamente in linea con il pensiero freudiano del ’20, assieme a Un medico di campagna che rimanda dallo specifico di un corpo leso alla più vasta orchestrazione di tutta un’essenza lesa. Non per caso il racconto si chiude – e porta così al massimo dell’espressione il tema della “mancanza” iniziale – con la completa perdita di identità del medico che ha risposto alla “fatale” chiamata notturna. Questa infatti è la posta che la regressione all’unità originaria di un corpo indiviso (la stessa a cui allude la coppia medico-malato) mette in gioco.
…In questo modo non tornerò mai a casa: la mia florida clientela è perduta, un successore mi deruba, ma senza profitto, perché non mi può sostituire; nella mia casa fa da padrone lo schifoso stalliere; Rosa è la sua vittima; non ci posso neanche pensare. Nudo, esposto al gelo di questa maledettissima epoca, su una carrozza realmente esistente, tirata da cavalli irreali, vado attorno vagando, povero vecchio. La mia pelliccia penzola dietro la carrozza, ma io non la posso raggiungere, e neanche uno fra la gentaglia inquieta dei pazienti muove un dito. Sono stato ingannato! Ingannato! Una volta dato retta al falso allarme del campanello notturno non e ‘è più rimedio.
una misteriosa malattia
Le lettere di Ottla ribadiscono e precisano l’intuizione folgorante che percorre tutto il carteggio con Milena Jesenska: la malattia, nella sua epifania corporea, non è che il frutto di una battaglia che si svolge tutta “dentro” l’individuo, tanto che di essa sempre e comunque si può dire che sia essenzialmente “malattia spirituale”, espressione della perdita di un senso originario.
Il corpo, poi, ne prefigurerà i tratti. La malattia di cui Kafka parla alla sorella – la propria, la tubercolosi – che aggredisce di colpo e si manifesta in un improvviso sbocco di sangue, presenta le stesse caratteristiche di mistero, incontrollabilità, segretezza, della malattia dell’adolescente di Un medico di campagna. Ne mantiene soprattutto il carattere di improvviso aprirsi del corpo sotto la spinta potente di una vita oscura – dunque il carattere di ferita in senso stretto e in senso metaforico – insieme a quello di un ritorno nella zona primaria del sangue, il proprio, che è lo stesso della madre e conserva tutta la potenza oscura di tale identità. «… erano circa le quattro del mattino.
Io mi sveglio, mi meraviglio della strana quantità di saliva in bocca, la sputo, ma poi mi decido di accendere la luce. E cosi comincia. Crleni, non so se è scritta bene, ma è un’espressione efficace per questo sgorgare dalla gola. Pensai che non dovesse smettere più. Come facevo a tappare la sorgente, se non l’avevo aperta…
… Ecco dunque la situazione di questa malattia spirituale, la tubercolosi».
il territorio materno
In che senso una malattia che si presenta come fatto specifico del corpo (lo sbocco di sangue) può essere definita “malattia spirituale”, senza che questo suoni profondamente contraddittorio con la visione classica della malattia stessa e non metta in scacco le strategie tradizionali del discorso scientifico volto ad averne ragione, cioè a curarla? Come sciogliere in maniera pertinente l’ambiguità contenuta in proposito nella formulazione kafkiana della malattia, che per altro in Un medico di campagna è costantemente presente, tanto da rappresentare il pilastro narrativo del racconto?
Sappiamo che l’ambiguità è uno dei tratti caratteristici del discorso poetico. Tale ambiguità, da cui si trae, rispetto al messaggio in sé stesso, un surplus di informazione e un accrescimento del senso, è non solo l’elemento che caratterizza la visione kafkiana della tubercolosi come “malattia spirituale”, me è presente nella formulazione della malattia in toto come “ancoraggio a un qualche territorio materno”.
Un medico di campagna è dunque un discorso poetico sulla malattia che ne svela e mette in luce aspetti e forme impraticabili e imprendibili da parte del discorso scientifico, dove le si assegna, in fondo, la stessa valenza di “continente nero” assegnata al “femminile” e lo stesso tipo di denegazione.
Un medico di campagna, mettendo in scena una malattia paradossalmente vitale, tocca i punti nevralgici della rimozione, sfalsa e mette in crisi l’apparato di senso del discorso tradizionale.
Il racconto costruisce perciò un “altro senso” della malattia, proprio attraverso la destrutturazione di quei parametri tramite cui essa ha un posto nel discorso scientifico (che solo di recente ha cominciato a porsi il problema della malattia come segno, facendola rientrare nell’ambito dell’attività simbolica umana).
Lo sfalsamento si determina, si è visto, nel momento stesso in cui il racconto presenta, intrinseca alla sua architettura, una struttura attoriale leggibile in doppia direzione: malato medico. Questa formulazione della struttura attoriale è l’apporto conoscitivo che il discorso poetico offre ai fini di una comprensione del “profondo” della malattia, tanto che il racconto, a questo punto del nostro lavoro di disambiguazione e ri-significazione del testo, potrebbe avere, per noi, come titolo II medico malato. La malattia diventa perciò la condizione fondante della relazione malato – medico. Condizione intesa non nel senso voluto dall’istituzione che tale relazione gestisce e appalta, o dal discorso scientifico che la circoscrive allo spazio della diagnosi, ma sorta di a-priori – se la si intende nella accezione kafkiana di “ancoraggio” al territorio materno -all’interno del quale si svolge il paradosso della relazione. Luogo dove si smaschera la posticcia diversità delle due parti contraenti e medico e malato figurano come unica struttura.
Il testo sembra suggerire questo: per comprendere il mistero del corpo che si apre nel linguaggio del sintomo, il discorso della scienza ha bisogno di supporti “altri” da quelli che esso stesso, come corpus teorico concluso sì è dato, di un’apertura (e si potrebbe qui arrischiare a dire, di una ferita), che lasci filtrare dentro la compatezza di un mondo tutto “mentalizzabile” e tutto trasparente, l’opacità contraddittoria di essere un corpo.
Tutto il discorso letterario del XX secolo ci restituisce una nozione di malattia che affonda le sue radici in antiche sedimentazioni del senso e corre parallelo, completandolo e sviluppandolo, alla concezione psicoanalitica del sintomo più rigorosa – quella freudiana – che considera il corpo e la malattia come universi significanti, depositari di propri linguaggi. Linguaggi marcati da una permanenza nell’opacità della concretezza storica – dobbiamo aggiungere – appartenenti quindi a una cultura e a un’epoca, come mostra T. Mann in La montagna incantata, dove, ancora, la malattia è la risposta totale che l’individuo dà a uno smarrimento di senso: tentativo di recupero, attraverso il percorso obbligato della regressione di quel senso arcaico e originario che precede e fonda il processo stesso della significazione e porta alle cadenze e ai ritmi del corpo della madre.
Senso di cui la malattia, come segno di movimento all’indietro dentro l’apparente movimento in avanti dell’epoca, è l’estremo tentativo di ricostituzione.