femminismo in fabbrica
La Vincent di Pomezia, una fabbrica d’abbigliamento a manodopera quasi totalmente femminile (50 donne su 60 operai), è un tipico esemplare della cassa del mezzogiorno: manovre creditizie, apertura di fabbriche per intascare i soldi e poi la chiusura. Una speculazione fatta sulla pelle degli operai che il più delle volte si serve di manodopera femminile: la più disponibile sul mercato, quella che più facilmente puoi rimandare a casa senza correre il rischio di creare pericolose tensioni sociali. Le operaie però, sempre più spesso, si ribellano violentemente a questo meccanismo, tipico del sistema capitalistico, che vorrebbe le donne perennemente disponibili come esercito industriale di riserva. Anche le operaie della Vincent si sono ribellate: hanno occupato la fabbrica dal 28 gennaio, sono andate più volte a manifestare sotto gli uffici amministrativi del padrone a Roma, insomma sono riuscite a imporre alle forze politiche e sindacali della zona la loro ferma volontà di conservare il posto di lavoro. Il 18 febbraio, infatti, hanno tenuto un’assemblea aperta con i consigli dei delegati delle altre fabbriche di Pomezia e i rappresentanti delle forze politiche, invitando anche alcune compagne del Movimento per la liberazione della donna autonomo. Gli interventi dei rappresentanti politici (tutti uomini), incentrati in maniera generica sull’attuale crisi economica, non sono stati altro che una passerella elettorale. Nessuno aveva colto la drammaticità della situazione di tutte quelle donne che li stavano ad ascoltare e che sono state sommerse da un mare di chiacchiere e da qualche vaga promessa. A questo punto abbiamo sentito l’esigenza di condurre il dibattito sulla specificità della condizione della donna che lavora e tanto più di quella che occupa una fabbrica fischiando ogni giorno di tornare a essere una disoccupata a vita o una supersfrutata del lavoro a domicilio. Le operaie hanno
accolto con entusiasmo il nostro intervento invitandoci a tornare di nuovo (e solo noi questa volta) per uno scambio di idee più approfondito su tutti i problemi della nostra vita di donne. All’incontro, avvenuto verso i primi di marzo, erano presenti quasi tutte le operaie della fabbrica che, questa volta, hanno potuto esprimere le loro idee, mostrando un alto livello di coscienza sia come compagne che come femministe (anche se non sapevano di esserlo). Ci hanno chiesto subito qual’era
la differenza tra l’UDI (che loro conoscevano di nome) e noi. «L’esigenza della nascita del movimento femminista autonomo — ha spiegato Silvia Grillo — è nata proprio dalle posizioni riformiste e miopi della sinistra tradizionale e dell’UDÌ stessa, che non hanno mai voluto cogliere lo specifico della condizione femminile, affrontando solo il problema dell’emancipazione. L’Udi, infatti, ha tentato di dare una risposta alla condizione di sfruttamento e di oppressione della donna, ma solo nei termini di semplice immissione nel mercato del lavoro. Non erano così toccati i problemi della famiglia, della divisione dei ruoli, della sessualità, dell’aborto. Insomma l’Udi non si era resa conto che con l’emancipazione la donna continuava a vivere i suoi drammi e le sue frustrazioni all’interno della famiglia e della società borghese». Questo discorso è stato recepito talmente bene dalle compagne della Vincent che ognuna di loro ha espresso con la massima apertura e sincerità il proprio dramma di essere donna e operaia allo stesso tempo. Hanno così raccontato i loro mille problemi quotidiani: dalla fatica che comporta il lavoro in fabbrica all’ansia per la difesa del posto di lavoro (soprattutto in questo momento), dall’accudimento dei figli e del marito al problema di arrivare a fine mese con i soldi che non bastano mai ed infine del bisogno di ritrovare sé stesse sotto questa massa di problemi che le schiaccia. «Mio marito è d’accordo che si faccia l’occupazione in fabbrica •— afferma Carmela — però, come al solito non fa niente per aiutarmi in casa. Qui facciamo i turni per l’occupazione e lui si secca se non trova il pranzo caldo alla solita ora, non vuole guardare i bambini, si vergogna di andare a fare la spesa». «Io ho 43 anni — racconta Ada — ho quattro figli e sono separata da mio marito. Per vent’anni ho creduto di essere frigida e, solo adesso con un nuovo compagno, ho scoperto che cosa vuol dire fare bene l’amore. Però non voglio più sposarmi».
«Io ho sempre voluto lavorare, anche se sapevo di dover faticare molto di più — afferma Natalia — perché ho sempre preferito avere dei soldi miei e non dover chiedere niente a mio marito».
Alcune, poi, hanno affermato di essere contrarie all’attuale battaglia per l’aborto. È stato sufficiente tuttavia parlare del significato che tale battaglia ha sempre avuto per noi femministe, chiedere loro se ritenevano giusto che una donna, dopo aver abortito rischiando la vita, fosse anche punibile penalmente, perché la loro coscienza di donne saltasse fuori abbattendo tutti i condizionamenti esterni subiti fino allora. Altre, invece hanno convenuto con noi che l’aborto non va visto come «una festa» o un’obiettivo ottimale da raggiungere, ma è sempre una violenza che la donna subisce, perché nessuno le ha mai insegnato niente sul sesso, perché il più delle volte non conosceva
neppure l’esistenza degli anticoncezionali, ma che, proprio per questi motivi, l’aborto deve essere liberalizzato completamente. Molte, poi, avevano abortito e hanno raccontato la loro esperienza con tranquillità, senza rimorsi, ma con tanta rabbia per essere state costrette a farlo e per le condizioni in cui l’aborto era avvenuto. Ci hanno anche chiesto delle informazioni sul funzionamento degli organi sessuali di cui avevano nozioni vaghe e imprecise. Alcune, poi, conoscevano o usavano la pillola, ma non erano informate del diaframma e della spirale. La conversazione, sempre vivacissima, si è spostata poi, sul problema del lavoro domestico. Matilde Maciocia ha parlato del significato che ha per noi il lavoro svolto a casa dalla donna: della riproduzione gratuita della forza lavoro, della mancanza dei servizi sociali che pesa sulle nostre spalle, dell’appiattimento, dei salari di tutta la classe operaia, realizzato attraverso le nostre quotidiane fatiche, della necessità della lotta per la socializzazione del lavoro domestico, contro il nostro specifico sfruttamento e contro il sistema capitalistico.
Un operaio, che era rimasto tutto il tempo seduto in fondo alla stanza, facendo finta di leggere il giornale, sollecitato più volte a intervenire nella discussione, si è rifiutato perché non era d’accordo su tutto quello che era stato detto fino allora (e, probabilmente, sulla nostra stessa presenza lì). Ci ha spiegato infine che, secondo lui, prima si deve lottare per l’occupazione maschile poi, quando tutti gli uomini saranno occupati, si potrà anche pensare a quella femminile. La prima reazione a tale cieca risposta è stata quella di sbatterlo fuori, ma una nostra compagna è intervenuta tentando di fargli capire che parlando così faceva proprio il gioco dei padroni: dividere e disgregare la classe operaia, con occupati ed emarginati gli uni contro gli altri, in battaglie che rischiano di diventare corporative. Le donne, infatti, sono sempre state usate dal sistema contro la classe operaia: sottopagate e sfruttate, sono loro l’ultimo. anello di quella catena (il decentramento produttivo), che, con il lavoro a domicilio, permette ai padroni, oggi più che mai, quei superprofitti che, con lo stesso lavoro svolto dagli operai in fabbrica, non potrebbero certo realizzare. È anche per questo motivo, quindi, che noi donne ci battiamo: perché non vogliamo più essere doppiamente sfruttate dal capitale (in maniera diretta con il lavoro a domicilio e indirettamente, come riproduttrici di forza lavoro gratuita) per poi essere strumentalizzate contro la stessa classe operaia. La discussione di quella mattinata ha suscitato sia in noi che nelle operaie una serie di problemi, che è necessario approfondire. Ci siamo lasciate quindi con la promessa di rivederci presto per parlare ancora e soprattutto per studiare insieme gli obiettivi della lotta autonoma e organizzata delle donne.
La nostra scelta di incontrarci con le operaie di una fabbrica è nata dalla esigenza di far crescere il movimento delle donne in una direzione sempre più rivoluzionaria e antagonista al sistema borghese. In una fase come questa, caratterizzata da una situazione di crisi politica complessiva nella quale il femminismo rappresenta sì un movimento in espansione, ma che corre il rischio di diventare «di moda», è necessario battersi perché questo movimento non venga recuperato dal sistema e dai partiti politici, perché non si richiuda in se stesso o in un ambito radical-borghese, sia per le componenti, sia per gli obiettivi che si dà. È indispensabile per questo che il femminismo sia gestito, in prima persona, anche dalle donne proletarie, quelle che più di tutte vivono lo sfruttamento e la emarginazione e la cui lotta, una volta avviata, può essere più difficilmente soddisfatta con concessioni proprie della logica borghese. Crediamo che il movimento per raggiungere questi obiettivi debba uscire all’esterno, andare nelle fabbriche, nei quartieri, ampliando il concetto e la pratica dell’autocoscienza a un momento collettivo di presa di coscienza. Non più il chiuso del piccolo gruppo, fatto solo dalle donne borghesi, dove la contraddizione dell’essere donna è vissuta esclusivamente a livello psicologico con un ripiegamento su sé stesse, ma una presa di coscienza che nasca sui posti di lavoro, nelle fabbriche, nei quartieri proletari, dove la contraddizione immediatamente sentita non è solo quella uomo-donna, ma soprattutto quella donna-capitale. Lo strumento della presa di coscienza, può essere quindi usato come momento prioritario, indispensabile per arrivare a concreti obiettivi di lotta gestiti e vissuti in prima persona dalle donne e non più delegati passivamente ai sindacati, ai partiti o alle avanguardie femministe.